Tecnologie digitali…(2) – Accesso all’informazione

Accesso-informazione

Qua andiamo abbastanza sul facile, non credo siano in molti a ritenere e a sostenere che a scuola l’informazione possa e debba provenire esclusivamente dal docente e dai libri di testo. Poche parole dunque per sottolineare solo che se si vuole garantire l’accesso reale tramite la rete bisogna predisporre un buon contratto con velocità adeguata, una rete locale correttamente dimensionata, una rete wireless adeguata. Sconsigliate le configurazioni economiche “fai da te”, per esperienza possiamo tranquillamente dire che non funzionano: ci vogliono switch ed access point adeguati all’utilizzo da parte di una comunità di svariate centinaia di persone, la situazione è ben diversa da quella domestica.

Parallelamente alla adeguatezza dell infrastruttura hardware (e in parte ad essa connessa) è il tema della sicurezza. Chi scrive non è fautore della “chiusura” dell’accesso ad alcuni siti da parte dei docenti e degli alunni, anzi, credo che avere una rete aperta a tutte le risorse dia la possibilità ai docenti di svolgere quella ormai ineludibile formazione all’utilizzo corretto della rete. Personalmente sono convinto che la sicurezza debba basarsi non sulla chiusura ad alcuni contenuti ma alla protezione da malware, da accessi indesiderati, truffe on line, protezione dei dati e della privacy soprattutto nei casi di server scolastici. Deve anche assicurare il corretto utilizzo della banda passante (quante volte abbiamo notato “torrent” e “muli” lasciati in azione nei laboratori . . .).

Dal punto di vista degli strumenti per l’utilizzo della infrastruttura di rete credo si sia abbastanza a buon punto, non è questo il collo di bottiglia. Molte scuole sono sufficientemente dotate di lavagne interattive con pc connesso in rete, soluzione questa ottimale per una grande maggioranza delle situazioni, quelle dove non occorre o non sia opportuno che ogni alunno faccia autonomo accesso alla rete (scuola primaria ad esempio), oppure quelle nelle quali si prediligano azioni didattiche centrate sulla lezione frontale. L’utilizzo delle aule informatiche è da limitare alle situazioni nelle quali siano indispensabili e cioè essenzialmente ai corsi di informatica o ai corsi centrati su sw applicativi. In tutti gli altri casi sono ergonomicamente non efficienti: personalmente mi piace assai poco ritrovarmi con 20 persone che non riesco a guardare in faccia perché nascoste dal monitor! Sempre più spesso ci si ritrova, e ancora più avverrà nel prossimo futuro, nella possibilità di utilizzare dispositivi portati dagli stessi studenti, cellulare in primo luogo ma anche tablet e notebook: la logica viene chiamata Bring Your Own Device (ognuno porta il suo personale dispositivo) nell’ambito della cultura pedagogica anglosassone e teoricamente potrebbe risolvere d’un colpo una serie di problemi. Naturalmente introducendone altri, ad esempio la scarsa possibilità di controllo da parte del docente, ma questo, come sta chiaramente palesandosi da più parti, è diventata una variabile importante ed ineludibile della progettazione educativa.

2 – continua

Le altre puntate:

  1. Tecnologie digitali negli ambienti di apprendimento

Manifesto degli insegnanti, qualche considerazione

Questo post nasce da uno scambio di battute su Facebook in merito al “Manifesto degli Insegnanti” che è stato recentissimamente pubblicato ad opera del network “La scuola che funziona“. L’idea che sta alla base del “Manifesto” è quella di creare, per gli insegnanti , quello che per i medici è il “giuramento di Ippocrate”. Lo scopo è certamente condivisibile, mi spiace solo non aver avuto il tempo materiale per potere, anche minimamente, contribuire. Tuttavia qualcosa, nel manifesto, non mi piace, non mi convince, lo avevo appunto accennato ad Andreas Formiconi che ieri ha esposto le ragioni dell’adesione in questo illuminante post. Se interpreto correttamente, l’affermazione fondamentale di Andreas è la seguente: la scuola ha sino ad ora svolto un compito che comporta, forse addirittura prevede, un processo di appiattimento delle caratteristiche personali ed individuali degli alunni in favore della creazione di categorie di lavoratori: il ragioniere, il medico, l’impiegato, l’ingegnere e via dicendo. Le godibilissime citazioni portate a sostegno di questa affermazione sono, da par suo, colte ed appropriate. Il “Manifesto degli insegnanti” potrebbe allora contribuire a mutare questa certo non esaltante situazione in quanto introduce il rispetto per la vita, il rispetto per la verità (non dogmaticamente intesa), il rispetto per l’errore. Concordo pienamente e condivido, pienamente convinto, della necessità che a scuola si coltivino tutte e tre queste forme di rispetto.

Tuttavia i motivi della mia perplessità a sottoscrivere il “Manifesto” permangono. Non me ne vorranno gli amici de “La scuola che funziona” che stimo e per i quali nutro un sentimento di gratitudine, ciò che adesso dirò è animato dalle migliori intenzioni.

Al punto numero 1 del manifesto leggo:  Amo insegnare. Amo apprendere. Per questo motivo sono un insegnante. Bellissimo, certamente, ma mi viene un dubbio: dobbiamo allora intendere che l’insegnamento non può essere una professione? Siamo ad una diversa formulazione della frase fare il docente è una missione che sentiamo da sempre? Certo piacerebbe a tutti poter lavorare facendo ciò che più si ama, ma quanti sono quelli che vi riescono?

Al punto 2 un’altra affermazione forte secondo la quale il docente che non fosse più capace di suscitare la meraviglia innata nell’alunno dovrebbe cedere il posto. Mi sembra un pò troppo categorica; e poi, cosa non trascurabile, di che vivrebbe? Teniamo famiglia . . . qualcuno direbbe. E poi, sinceramente, mi sembra una affermazione poggiata sulla buona volontà e poco realistica: la scansione delle attività scolastiche in giorni e ore prefissate è, già da sola, garanzia di noia assicurata! Per farlo capire ai miei alunni (me lo permetto perchè sono grandicelli, diciamo dai 16 ai 20 anni) dico loro che se dovessero, obbligatoriamente, fare l’amore con la fidanzata più desiderabile dalle 9 alle 10 del lunedì, dalle 12 alle 14 del mercoledì e alle 8 del sabato, così come succede per una qualsiasi materia di insegnamento, bè, sono sicuro che non ne potrebbero più già dopo poche settimane! Figuriamoci per nove mesi di fila! Insomma, voglio dire che la stessa organizzazione di base della scuola contraddice al principio del rispetto della persona. Nel manifesto sembra che il docente possa ergersi eroicamente a superare a piè pari anche questo ordine di difficoltà.

Non mi pare il caso, nè mi sembrerebbe corretto, fare adesso una disamina di tutti i punti. Mi limiterò a notare che ai punti 11, 12 e 13 si legge:  lotterò, resterò fedele, aiuterò ad illuminare . . . sinceramente, mi sembrano affermazioni piuttosto “calcate”. Mi sembra che ne emani la visione di un insegnante con uno smisurato ego e con una concezione di sè ispirata all’epico guerriero.

Per questo non riesco a trovare sufficiente empatia per firmare.

Berlusconi, il cognitivismo e il connettivismo.

Mi sono domandato, negli ultimi anni, come sia potuto accadere che affermazioni come “ho sconfitto il comunismo in italia” abbiano potuto trovare accoglienza e credito nella pubblica opinione nonostante la loro palese incosistenza. Le letture proposte dal corso sul “connettivismo” mi stanno sollecitando, al proposito, alcune riflessioni.

In accordo al cognitivismo, noi conosciamo qualcosa quando riusciamo a esprimerla con le parole e con il linguaggio: in questo senso “conoscere” significa, in qualche modo, creare una corrispondenza tra le strutture semantiche e lo stesso pensiero formulato dalla mente.

Secondo il connettivismo, invece, l’attività del conoscere consiste nella creazione di strutture a “rete”: in tali strutture ogni nodo della rete costituisce una informazione e le modalità con le quali queste informazioni vengono connesse determinano le modalità stesse del conoscere. Si capisce molto bene l’utilità di questa teoria quando si osserva come persone diverse imparino “cose diverse” anche a partire dalla stessa identica base informativa: ogni persona infatti creerà diverse modalità di connessione e diversi pattern di interpretazione.

Sulla base di quanto appena detto, sembrerebbe che la formazione della pubblica opinione sia molto sensibile alle dinamiche di tipo cognitivista: l’intera carriera politica Berlusconiana è stata costellata da affermazioni – come quella sopra citata – che sul piano squisitamente semantico conservano intatto il loro potere descrittivo. Anche a dispetto del fatto che in Italia i comunisti sono praticamente scomparsi ( certamente hanno terminato di costituire un pericolo) almeno dagli anni 70, quando Berlinguer escogitò la formula del “compromesso storico”. Se l’atteggiamento intellettuale di massa fosse più “connettivista”, l’affermazione “ho sconfitto il comunismo” sarebbe immediatamente stata confrontata con le informazioni relative alla non esistenza di un pericolo comunista per l’Italia e avrebbe subito rivelato la sua evidente infondatezza.

English ( I apologize for this . . .)

During the last years I frequently asked myself how statements like “I defeated comunism in Italy” had been considered “true” by the public opinion, in spite of their evident flimsiness. Lectures from Connectism Course are bringing to me some new considerations.

According to cognitivism, we “know” something when we are able to describe it with words and language: according to that, “knowing” mean, anyway, making a corrispondence between the semantic structures and the thoughts of our minds.

According to connettivism, knowing lies in making networks: into this kind of networks, data are linked and organized in “patterns”. The process of pattern creating is “learning”. It’s possible to understand very well the validity of such a theory: if different individuals are provided with the same knowledge base, they will learn “different things” because they will grow different patterns.

So, probably, public opinion shapping is a “cognitivist process”: the whole Berlusconi’s political career is full of statements – like the above one – perfectly acceptable if strictly examined by the semantic point of view. In spite of the fact that “communism”, in italy, stopped to be considered a danger from the late ’70, when Enrico Berlinguer proposed the “compromesso storico” (historical compromess).
If the mind-set of the masses would be more “connetivist”, the statement ” I defeated communism” would be immediatly linked with data showing the absence of communism in Italy, and then it would be, with no doubt, be considered totally no-consistent.