xWeb

Liberamente tradotto da xWeb di George Siemens

Dare un nome alle cose è importante. E’ più facile dire “web 2.0” piuttosto che “web partecipativo, con contenuto distribuito, guidato dalla conversazione”. Sfortunatamente, i nomi modellano i concetti a volte in maniera imprecisa. E, una volta creato il nome, uomini di market, consulenti, opinionisti si lanciano “nella monetizzazione delle potenzialità sinergiche del web 2.0 [o di qualsiasi altra cosa]”. Proprio oggi mi sono imbattuto su Twitter in un post relativo al “crowdsourcing the longtail of training content”. ugh. Talvolta le parole, anzichè di aiuto, sono dannose.

Ancora, dare un nome alle cose può anche essere di aiuto nell’evidenziare un punto di svolta. O ppure un buon nome può focalizzare l’attenzione ai cambiamenti dando loro una forma definita che può essere adoperata per la previsione di trend significativi. Web 2.0 fu uno di quei punti di svolta. Un altro punto di svolta è costituito dall’articolo elearning 2.0 di Stephen Downes.

Siamo adesso in un periodo nel quale i progressi tecnologici stanno generando qualcosa di più definitivo di una collezione casuale di innovazioni quali FourSquare, il semantic web e la “augmented reality.

La settimana scorsa Steve Wheeler, con la sua presentazione sul web 3.0,  ha lanciato un dibattito. Downes ha subito replicato suggerendo che Web X ( nel senso di eXtended) sarebbe stato un buon titolo. Un buon nome, peccato somigli troppo a web ex – il fornitore di conferenze on line. Abbiamo bisogno di un altro termine. Io sto pensando a “xWeb” e non credo di essere il solo: si veda l’articolo di Rita Kopp proprio sull’argomento dello “extended Web”. Analogamente a quanto successo per lo sviliuppo dei termini PLE, connettivismo, elearning 2.0 e anche web 2.0, “xWeb” non rappresenta un qualcosa di totalmente nuovo. Piuttosto da forma ad un argomento che molte persone si stanno sforzando di definire.

Cosa è xWeb?

xWeb è l’utilizzazione di dati intelligenti e strutturati tratti dalle nostre interazioni e identità fisiche e virtuali in  modo da estendere la nostra capacità di essere conosciuti da altre persone e da altri sistemi.

Come definizione è abbastanza imprecisa, ma si tratta solo di un punto di partenza. Dal momento che xWeb nasce dal web e dal web 2.0, gli elementi coinvolti sono assai numerosi. Ciò che è unico nel xWeb è il modo nel quale è capace di trasformare come lavoriamo, come impariamo, come interagiamo con gli altri e con l’informazione. Ad un certo livello si tratta della maturazione del web come già lo conosciamo – una estensione naturale degli attuali trend di sviluppo della tecnologia e di internet. Ma, ad un differente livello, coinvolge una negoziazione tra due questioni chiave sulle quali continuo sempre a riflettere:

  1. Cosa la tecnologia fa meglio delle persone?
  2. Cosa le persone fanno meglio della tecnologia?

Con xWeb noi stiamo ripensando cosa spetta a noi fare in quanto persone e stiamo cominciando a fare affidamento a quanto la tecnologia fa meglio di quanto potremmo fare noi stessi.

Negli ultimi anni ho cercato di catturare la natura del cambiamento tecnologico. In parte ne ho parlato sui blog, in parte ne ho trattato in presentazioni e pubblicazioni, altro si può trovare su delicious.

Alcuni temi ricorrenti:
augmentation
aggregation
semantic web
location-based services (geoweb)
data overlay
smart information
visualization
social media
open data and data in general
Internet of things
cloud computing
mobile technologies
Analytics and monitoring

A questa lista potremmo ancora aggiungere “filtering”, gli strumenti del tipo “like this”, gli strumenti di annotazione (diigo), il wearable computing e così via.

Questi i temi chiave al centro del concetto di xWeb

  1. Il mondo fisico e quello virtuale  si stanno in qualche modo compenetrando, come evidenziato dai browser in “augmented reality” (Layar) e da servizi quali Yelp e Foursquare.
  2. I dati cominciano a giacere sugli oggetti fisici ( graffiti digitali e sovrapposizioni contestuali/storiche così come il web 3D)
  3. I dati cominciano a diventare più intelligenti – piuttosto che semplicemente puntare ad altre risorse ( ad esempio gli URL), i dati cominciano ora a quantificare la natura di quella connessione.
  4. Gli oggetti fisici stanno proiettando la loro presenza nel digitale (l’internet delle cose)
  5. Sempre più spesso i dati vengono registrati nella “cloud” che permette un accesso migliore ad un più ampio range di dispositivi.
  6. I dati sono sempre più “aperti” in modo da permettere nuove combinazioni da parte degli utenti finali… Google map è stato uno dei primo esempi del potere della logica “open”, in questo seguito da molti esempi ( incluso open street maps).
  7. L’abbondanza di dati aperti, di nuove sorgenti di dati (social media, sensori) e di numerosi usi dei dati (overlay, digital graffiti, social networks) rende possibile l’effettuazione di analisi avanzate circa gli utenti finali o il corrente “state of mind” della società (ad esempio i trend di Twitter). Le connessioni significano qualcosa. Man mano le connessioni tra persone, tra persone e dati e tra dati e dati divengono maggiormente abbondanti ed esplicite, possiamo guadagnare una maggiore conoscenza di cosa le persone stiano pensando e di come si preparano ad agire.
  8. Dati più intelligenti insieme a migliore capacità di analisi preparano il terreno per una capacità di fornire contenuti, socializzazione e prodotti altamente personalizzati.
  9. Dati + analisi + personalizzazione richiede la formazione di calcoli predittivi: “poichè tu appartieni a questo gruppo demografico, ti piacciono questi film, sei amico di queste persone, allora ti piacerà questa marca di caffè”.  Non siamo noi a cercare i dati, sono i dati a trovarci. In un certo senso, i dati ci conoscono.

Ancora sui “barbari” e sul levare

La replica di Scalfari alla lettera di Baricco dal 2026 (vedi www.columba.it/2010/08/26/allora-non-era-vera-apocalisse/ ) ed alcuni altri interventi, tra i qualiLettera ad Alessandro Baricco, dal 2010″ di Treccenere, mi danno lo spunto per tornare sullo stimolante argomento. Ha ragione, Scalfari, quando afferma che i barbari non ci toglieranno la nostra profondità. Non possono, in effetti, se ci siamo formati in un certo modo, se la nostra formazione ed educazione è andata avanti per successive e ripetute “immersioni” nella profondità, se in questo modo abbiamo acquisito il nostro specifico patrimonio culturale, ebbene tutto ciò non ce lo toglierà proprio nessuno. Ha ragione, Treccenere, è molto intrigante, anche, quando propone la metafora del canyon, una superficialità profonda, potremmo dire, cercando l’ossimoro e cercando di mettere in luce il limite della tesi baricchiana.

Da canto mio vorrei spendere qualche parola a favore. Ma soprattutto qualche parola per cercare di mostrare come non sia intenzione dei barbari (quelli di Baricco) quella di “togliere” qualcosa a qualcuno. Oppure di voler costruire una sorta di conoscenza, di cultura “di serie B”. Probabilmente siamo tutti condizionati dalla impressione che ci ha fatto, da bambini, studiare, per la prima volta, la caduta dell’Impero Romano, la sua devastazione ad opera delle orde gotiche e di altre popolazioni centro-europee. Anche se poi abbiamo studiato i diversi e complessi motivi che determinarono la fine dell’impero, ci è sempre rimasta nella memoria la connotazione dei barbari come “i cattivi” di un film nel quale “l’arrivano i nostri”, per una volta, non ha funzionato.

Scalfari dice a Baricco che

non è e non può essere un barbaro perché è intriso di memoria storica, conosce perfettamente quanto è accaduto, ha studiato i testi, ha ascoltato le musiche, ha addirittura messo in scena l’ Iliade e Achille, usa a meraviglia ed anzi insegna il nostro linguaggio

Tuttavia Baricco forse ne riesce ad intuirne il linguaggio (quello dei barbari). In questo non è solo, anzi c’è una scuola di pensiero canadese, il cosiddetto “connettivismo” al quale, forse non consapevolmente, fa riferimento. Mi riferisco qui alle teorie della conoscenza secondo il pensiero di Stephen Downes e George Siemens. Leggiamo ad esempio da What Connectivism Is:

At its heart, connectivism is the thesis that knowledge is distributed across a network of connections, and therefore that learning consists of the ability to construct and traverse those networks.

It shares with some other theories a core proposition, that knowledge is not acquired, as though it were a thing. Hence people see a relation between connectivism and constructivism or active learning (to name a couple).

Where connectivism differs from those theories, I would argue, is that connectivism denies that knowledge is propositional. That is to say, these other theories are ‘cognitivist’, in the sense that they depict knowledge and learning as being grounded in language and logic.

Connectivism is, by contrast, ‘connectionist’. Knowledge is, on this theory, literally the set of connections formed by actions and experience. It may consist in part of linguistic structures, but it is not essentially based in linguistic structures, and the properties and constraints of linguistic structures are not the properties and constraints of connectivism.

In connectivism, a phrase like ‘constructing meaning’ makes no sense. Connections form naturally, through a process of association, and are not ‘constructed’ through some sort of intentional action. And ‘meaning’ is a property of language and logic, connoting referential and representational properties of physical symbol systems. Such systems are epiphenomena of (some) networks, and not descriptive of or essential to these networks.

Hence, in connectivism, there is no real concept of transferring knowledge, making knowledge, or building knowledge. Rather, the activities we undertake when we conduct practices in order to learn are more like growing or developing ourselves and our society in certain (connected) ways.

[Italiano

In sostanza il connettivismo è la tesi secondo la quale la conoscenza è distribuita in una rete di connessioni e perciò l’apprendimento consiste nella abilità di costruire e di attraversare quelle reti.
Ha in comune con altre teorie una affermazione basilare e cioè che la conoscenza non può essere acquisita come si trattasse di un oggetto. In questo senso si può intravedere un punto di contatto tra il connettivismo e il costruttivismo o l’apprendimento attivo.
Dove il connettivismo si distacca da queste teorie è nella negazione che la conoscenza possa essere proposizionale (in senso filosofico, vedi http://en.wikipedia.org/wiki/Propositional ). In pratica, quelle altre teorie possono essere tutte definite “cognitiviste” nel senso che descrivono la conoscenza e l’apprendimento come basate sulla logica e sul linguaggio.
Per contrasto il connettivismo è “connessionista”. In questa teoria la conoscenza è, letteralmente, l’insieme di connessioni formate dalle azioni e dalle esperienze. Può parzialmente consistere di strutture linguistiche, ma senza esservi basata e le proprietà e i vincoli delle strutture linguistiche non coincidono con le proprietà e i vincoli del connettivismo.
Una frase del tipo “costruire il significato” nel connettivismo non ha senso. Le connessioni si formano naturalmente, attraverso un processo di associazione e non sono costruite da alcun tipo di azione intenzionale. E “significato” è  una proprietà del linguaggio e della logica che connota proprietà referenziali  e rappresentazionali dei sistemi simbolici fisici. Tali sistemi sono epifenomeni delle reti e non ne sono descrittivi nè ne sono essenziali.
Nel connettivismo quindi non c’è spazio per il concetto di trasferimento della conoscenza, produzione della conoscenza o costruzione della conoscenza. Piuttosto, le attività che intraprendiamo al fine di ottenerne un apprendimento somigliano di più al processo di crescita e di  sviluppo di noi stessi e della nostra stessa società.]
La traduzione è mia, mi scuso per eventuali imprecisioni…

Mi sembra quindi che il discorso sul senso, sul fatto cioè che il senso per i nuovi barbari sia “tutto in superficie”, ovvero tutto contenuto e sviluppato in modo reticolare,  possa essere tranquillamente giudicato nè minaccioso nè sminuitivo del concetto stesso di conoscenza e di cultura. Più probabilmente non di minaccia si tratta, ma di una profonda mutazione del pensiero.

Qualche link per chi volesse approfondire:

Modi diversi per un corso on line – A different on line course

English section of the post

In this post I’ll try to summarize in italian language the content of How This Course Works post. So it is not necessary the english translation of it. Better the original one!

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Leggo la pagina How This Course Works del Critical Literacies Online Course Blog in fase di avviamento. Si tratta di un corso di tipo connettivista e le differenze di concezione e di svolgimento sono subito evidenti. Provo a puntualizzarle.

Intanto va evidenziato che l’obiettivo del corso non è quello di ricordare dei contenuti. Si tratta piuttosto di intraprendere delle attività che saranno, di conseguenza, diverse da persona a persona. La sede di svolgimento inoltre non è unica ma l’intero web è potenzialmente coinvolto. Le attività principali sono quattro:

  • Aggregazione

Il corso fornisce una grande quantità di materiali in forma di letture, video, audio e quant’altro immaginabile. La quantità è tale che non è pensabile che si possa leggerli tutti. Ognuno allora è chiamato a scegliere quanto ritiene più interessante e appropriato ai personali interessi.

  • Remix ( non saprei come tradurlo)

Una volta che alcuni contenuti siano stati letti o ascoltati o guardati, il passo successivo è di tenerne in qualche modo traccia. I modi consigliati per questo sono:

  • scrivere un post sul proprio blog (eventualmente aprendone uno nuovo su blogger o su wordpress)
  • creare un nuovo item su delicious per ogni documento fruito
  • prendere parte alla discussione sui forum della piattaforma on line del corso
  • inviare dei messaggi su Twitter
  • Riproposizione

Si tratta forse della fase più difficile e delicata. Deliberatamente è stato scelto questo termine perchè non si tratta di fare delle “creazioni”, quanto piuttosto delle rielaborazioni personali dei materiali precedentemente aggregati e “remixati”. L’accento qui è posto sul fatto che non si tratta di partire da zero, bensì si parte dai materiali che sono stati precedentemente proposti. Gli stessi materiali dovranno costituire i mattoni sui quali costruire pensiero e comprensione.

Questo pensiero, questa comprensione, sono il vero oggetto del corso. Gli strumenti di alfabetizzazione critica che saranno descritti nel corso dovranno costituire i veri e propri strumenti (tools) per creare il proprio personale contenuto. Il compito dei corsisti è, quindi, non quello di memorizzare i contenuti, ma di usarli come strumenti con i quali fare pratica.

  • Condivisione

Altra attività fondamentale per il corso è quello della condivisione di quanto andiamo producendo. Può essere imbarazzante, può capitare di sentirsi esposti e di fare pubblicamente degli errori, ma si tratta di una operazione stimolante che ci spinge a lavorare più duramente e più significativamente. E poi il corso si nutre, letteralmente, della condivisione dei materiali che ogni partecipante produce: ogni contributo incrementa la quantità di materiale disponibile. Le persone apprezzano molto che si condivida con loro del materiale. Ognuno di noi apprezza la possibilità di poter accedere a dei materiali.

Le modalità della condivisione sono le seguenti: taggare ogni contributo con la sigla CritLit2010, specialmente su delicious o su twitter. Attraverso questo tag i diversi contributi saranno automaticamente aggregati a livello dell’intero corso. Stesso discorso vale per i post sui blog, o i materiali su facebook o flickr.

Quando un corso connettivista funziona bene, grazie a questa modalità di condivisione è possibile assistere all’instaurarsi di un grande ciclo di produzione, creazione e condivisione. Una esperienza così bella che non si vorrebbe che terminasse con il corso stesso.

Berlusconi, il cognitivismo e il connettivismo.

Mi sono domandato, negli ultimi anni, come sia potuto accadere che affermazioni come “ho sconfitto il comunismo in italia” abbiano potuto trovare accoglienza e credito nella pubblica opinione nonostante la loro palese incosistenza. Le letture proposte dal corso sul “connettivismo” mi stanno sollecitando, al proposito, alcune riflessioni.

In accordo al cognitivismo, noi conosciamo qualcosa quando riusciamo a esprimerla con le parole e con il linguaggio: in questo senso “conoscere” significa, in qualche modo, creare una corrispondenza tra le strutture semantiche e lo stesso pensiero formulato dalla mente.

Secondo il connettivismo, invece, l’attività del conoscere consiste nella creazione di strutture a “rete”: in tali strutture ogni nodo della rete costituisce una informazione e le modalità con le quali queste informazioni vengono connesse determinano le modalità stesse del conoscere. Si capisce molto bene l’utilità di questa teoria quando si osserva come persone diverse imparino “cose diverse” anche a partire dalla stessa identica base informativa: ogni persona infatti creerà diverse modalità di connessione e diversi pattern di interpretazione.

Sulla base di quanto appena detto, sembrerebbe che la formazione della pubblica opinione sia molto sensibile alle dinamiche di tipo cognitivista: l’intera carriera politica Berlusconiana è stata costellata da affermazioni – come quella sopra citata – che sul piano squisitamente semantico conservano intatto il loro potere descrittivo. Anche a dispetto del fatto che in Italia i comunisti sono praticamente scomparsi ( certamente hanno terminato di costituire un pericolo) almeno dagli anni 70, quando Berlinguer escogitò la formula del “compromesso storico”. Se l’atteggiamento intellettuale di massa fosse più “connettivista”, l’affermazione “ho sconfitto il comunismo” sarebbe immediatamente stata confrontata con le informazioni relative alla non esistenza di un pericolo comunista per l’Italia e avrebbe subito rivelato la sua evidente infondatezza.

English ( I apologize for this . . .)

During the last years I frequently asked myself how statements like “I defeated comunism in Italy” had been considered “true” by the public opinion, in spite of their evident flimsiness. Lectures from Connectism Course are bringing to me some new considerations.

According to cognitivism, we “know” something when we are able to describe it with words and language: according to that, “knowing” mean, anyway, making a corrispondence between the semantic structures and the thoughts of our minds.

According to connettivism, knowing lies in making networks: into this kind of networks, data are linked and organized in “patterns”. The process of pattern creating is “learning”. It’s possible to understand very well the validity of such a theory: if different individuals are provided with the same knowledge base, they will learn “different things” because they will grow different patterns.

So, probably, public opinion shapping is a “cognitivist process”: the whole Berlusconi’s political career is full of statements – like the above one – perfectly acceptable if strictly examined by the semantic point of view. In spite of the fact that “communism”, in italy, stopped to be considered a danger from the late ’70, when Enrico Berlinguer proposed the “compromesso storico” (historical compromess).
If the mind-set of the masses would be more “connetivist”, the statement ” I defeated communism” would be immediatly linked with data showing the absence of communism in Italy, and then it would be, with no doubt, be considered totally no-consistent.

Very first thoughts

Just started Connectivism & Connettive Knowledge on line course, so I’m reading and reading  . . . I found really interesting the idea that “knowledge” is a sort of a process of neuronal network growing in the brain. According to that, mind is a sort of analog “image” of the world we experience in our life.

Italian

Sono alle prime letture del corso on line Connectivism & Connettive Knowledge. Mi sembra molto interessante pensare alla conoscenza come frutto di una attività di creazione di reti, anche a livello di attività neuronale! Verrrebbe addirittura da pensare alla conoscenza come la formazione, a livello neuronale, di una sorta di “immagine” del mondo che ognuno di noi sperimenta nel corso della sua esistenza.