La replica di Scalfari alla lettera di Baricco dal 2026 (vedi www.columba.it/2010/08/26/allora-non-era-vera-apocalisse/ ) ed alcuni altri interventi, tra i quali “Lettera ad Alessandro Baricco, dal 2010″ di Treccenere, mi danno lo spunto per tornare sullo stimolante argomento. Ha ragione, Scalfari, quando afferma che i barbari non ci toglieranno la nostra profondità. Non possono, in effetti, se ci siamo formati in un certo modo, se la nostra formazione ed educazione è andata avanti per successive e ripetute “immersioni” nella profondità, se in questo modo abbiamo acquisito il nostro specifico patrimonio culturale, ebbene tutto ciò non ce lo toglierà proprio nessuno. Ha ragione, Treccenere, è molto intrigante, anche, quando propone la metafora del canyon, una superficialità profonda, potremmo dire, cercando l’ossimoro e cercando di mettere in luce il limite della tesi baricchiana.
Da canto mio vorrei spendere qualche parola a favore. Ma soprattutto qualche parola per cercare di mostrare come non sia intenzione dei barbari (quelli di Baricco) quella di “togliere” qualcosa a qualcuno. Oppure di voler costruire una sorta di conoscenza, di cultura “di serie B”. Probabilmente siamo tutti condizionati dalla impressione che ci ha fatto, da bambini, studiare, per la prima volta, la caduta dell’Impero Romano, la sua devastazione ad opera delle orde gotiche e di altre popolazioni centro-europee. Anche se poi abbiamo studiato i diversi e complessi motivi che determinarono la fine dell’impero, ci è sempre rimasta nella memoria la connotazione dei barbari come “i cattivi” di un film nel quale “l’arrivano i nostri”, per una volta, non ha funzionato.
Scalfari dice a Baricco che
non è e non può essere un barbaro perché è intriso di memoria storica, conosce perfettamente quanto è accaduto, ha studiato i testi, ha ascoltato le musiche, ha addirittura messo in scena l’ Iliade e Achille, usa a meraviglia ed anzi insegna il nostro linguaggio
Tuttavia Baricco forse ne riesce ad intuirne il linguaggio (quello dei barbari). In questo non è solo, anzi c’è una scuola di pensiero canadese, il cosiddetto “connettivismo” al quale, forse non consapevolmente, fa riferimento. Mi riferisco qui alle teorie della conoscenza secondo il pensiero di Stephen Downes e George Siemens. Leggiamo ad esempio da What Connectivism Is:
At its heart, connectivism is the thesis that knowledge is distributed across a network of connections, and therefore that learning consists of the ability to construct and traverse those networks.
It shares with some other theories a core proposition, that knowledge is not acquired, as though it were a thing. Hence people see a relation between connectivism and constructivism or active learning (to name a couple).
Where connectivism differs from those theories, I would argue, is that connectivism denies that knowledge is propositional. That is to say, these other theories are ‘cognitivist’, in the sense that they depict knowledge and learning as being grounded in language and logic.
Connectivism is, by contrast, ‘connectionist’. Knowledge is, on this theory, literally the set of connections formed by actions and experience. It may consist in part of linguistic structures, but it is not essentially based in linguistic structures, and the properties and constraints of linguistic structures are not the properties and constraints of connectivism.
In connectivism, a phrase like ‘constructing meaning’ makes no sense. Connections form naturally, through a process of association, and are not ‘constructed’ through some sort of intentional action. And ‘meaning’ is a property of language and logic, connoting referential and representational properties of physical symbol systems. Such systems are epiphenomena of (some) networks, and not descriptive of or essential to these networks.
Hence, in connectivism, there is no real concept of transferring knowledge, making knowledge, or building knowledge. Rather, the activities we undertake when we conduct practices in order to learn are more like growing or developing ourselves and our society in certain (connected) ways.
[Italiano
In sostanza il connettivismo è la tesi secondo la quale la conoscenza è distribuita in una rete di connessioni e perciò l’apprendimento consiste nella abilità di costruire e di attraversare quelle reti.
Ha in comune con altre teorie una affermazione basilare e cioè che la conoscenza non può essere acquisita come si trattasse di un oggetto. In questo senso si può intravedere un punto di contatto tra il connettivismo e il costruttivismo o l’apprendimento attivo.
Dove il connettivismo si distacca da queste teorie è nella negazione che la conoscenza possa essere proposizionale (in senso filosofico, vedi http://en.wikipedia.org/wiki/Propositional ). In pratica, quelle altre teorie possono essere tutte definite “cognitiviste” nel senso che descrivono la conoscenza e l’apprendimento come basate sulla logica e sul linguaggio.
Per contrasto il connettivismo è “connessionista”. In questa teoria la conoscenza è, letteralmente, l’insieme di connessioni formate dalle azioni e dalle esperienze. Può parzialmente consistere di strutture linguistiche, ma senza esservi basata e le proprietà e i vincoli delle strutture linguistiche non coincidono con le proprietà e i vincoli del connettivismo.
Una frase del tipo “costruire il significato” nel connettivismo non ha senso. Le connessioni si formano naturalmente, attraverso un processo di associazione e non sono costruite da alcun tipo di azione intenzionale. E “significato” è una proprietà del linguaggio e della logica che connota proprietà referenziali e rappresentazionali dei sistemi simbolici fisici. Tali sistemi sono epifenomeni delle reti e non ne sono descrittivi nè ne sono essenziali.
Nel connettivismo quindi non c’è spazio per il concetto di trasferimento della conoscenza, produzione della conoscenza o costruzione della conoscenza. Piuttosto, le attività che intraprendiamo al fine di ottenerne un apprendimento somigliano di più al processo di crescita e di sviluppo di noi stessi e della nostra stessa società.] La traduzione è mia, mi scuso per eventuali imprecisioni…
Mi sembra quindi che il discorso sul senso, sul fatto cioè che il senso per i nuovi barbari sia “tutto in superficie”, ovvero tutto contenuto e sviluppato in modo reticolare, possa essere tranquillamente giudicato nè minaccioso nè sminuitivo del concetto stesso di conoscenza e di cultura. Più probabilmente non di minaccia si tratta, ma di una profonda mutazione del pensiero.
Qualche link per chi volesse approfondire: