Ho cominciato a leggere questo libro con una certa diffidenza: avevo sentito la presentazione in radio , con l’intervista allo stesso Di Piazza e vi avevo letto una certa retorica sulla città di Palermo e sulla vita che vi si svolge, avevo percepito una notevole quantità di “mestiere” che doveva essersi riversato nella scrittura, nella presentazione, nella distribuzione. Peró quando, nel pomeriggio dello stesso giorno, me lo sono trovato davanti mentre, all’edicola, compravo biglietti dell’autobus, non ho potuto fare a meno di acquistarlo.
E ho fatto bene.
La lettura mi ha subito preso, scorre piacevole e facile senza mai essere banale. L’alternanza, poi, di scene di morte e di scene di amore è molto efficace nel destare interesse. Ma c’è stato per me un elemento in piû, personale, anzi un doppio elemento di incremento del coinvolgimento: l’essere nato, cresciuto e vissuto a Palermo, l’essere coetano e appartenente al medesimo insieme socioculturale dell’autore. Pur non avendolo mai direttamente conosciuto, “lo conosco” come si conoscono molte persone dello stesso nostro ambiente, in modo indiretto, ma non piû che con “un grado di separazione”, per usare il linguaggio della rete. Dunque vi ho ritrovato il periodo dei miei venti anni, rivivendolo dal punto di vista di un protagonista differente. Dunque durante la lettura si accavallavano ed interagivano in me scene in “soggettiva” e in “oggettiva” con un effetto, confesso, di un certo turbamento.
Per questo non mi sento di giudicare il libro, almeno non secondo i parametri classici previsti per un’opera di narrativa. Piuttosto vorei fare qualche breve considerazione su quel periodo storico, terribile e interessante al tempo stesso.
Erano anni nei quali da casa mia, posta in un punto nevralgico del traffico cittadino, non si smetteva mai di sentire il suono di qualche sirena: o erano le ambulanze verso due degli ospedali più grandi della città o erano le scorte armate di magistrati e politici (il massimo raggiuntosi dopo le stragi di Falcone e Borsellino). Ed erano anche gli anni nei quali la mia generazione si era impegnata a trovare un lavoro, era agli inizi delle sua vita professionale. Per me e per tanti altri furono gli anni delle cooperative, nelle quali si erano riversati tanti giovani più o meno intellettuali, più o meno provenienti dal cosiddetto “riflusso” del periodo politico. Era quindi un periodo di grande sforzo creativo rivolto per lo più ad inventare lavori che fossero in qualche modo “alternativi” al classico “sistema” che per tanto anni avevamo cercato in tutti i modi di combattere. Sto dicendo che gi anni 80 furono anche, per certi versi, gli anni di un bel decennio, la città era viva, con forze giovani sinceramente al lavoro. Annì che mi hanno consentito di avvicinare e scoprire – con la cooperativa cui appartevo ci dedicavamo alla produzione di documentari e spettacoli di carattere antropologico e ambientale – temi e mondi altrimenti lontanissimi da me, persone e culture che hanno grandemente contribuito alla mia formazione personale.
Certo, nello stesso periodo tanti amici decidevano di distruggersi con l’eroina. E nel periodo successivo si assisteva al dilagare delle cooperative fittizie create all’unico scopo di farsi poi assumere dalla Regione Sicilia (quanti!)…
Sono temi che meriterebbero delle riflessioni molto più approfondite e documentate, ben al di là di un semplice “post” di un blog. Aggiungo solo una considerazione, rivolta essenzialmente ai non-palermitani: dai racconti di mafia, in generale dai racconti sulla vita in sicilia, sembra che tutti si debba vivere più o meno le stesse cose. Niente di più sbagliato! Non so se questo accada anche nelle altre città, ma qui è come se si vivesse in tante “enclave”, magari non rigidamente definite e confinate, ognuna di esse però costituendo un “mondo” con i suoi filtri e i suoi ammortizzatori. Esercitano una specie di confinamento “morbido” ma non per questo inefficace: se non si ha la curiosità di uscire dalla propria, di sperimentarne altre, ci si puó trovare a vivere vite totalmente diverse da quelle dei nostri omologhi e vicini.
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