Cronaca di un finesettimana

Sant’Alfio, Etna, Castagno dei cento cavalli. Colmo una lacuna: duemila e passa anni di castagno e non ero mai venuto a conoscerlo. Strepitoso.
Piombato in un’atmosfera lietamente paesana. Per dormire dormo al B&B della proprietaria del bar della piazza. Piove, la ragazza della proloco ne sa meno di me, vado a cenare in un ristorante al centro del paese. Becco la serata karaoke… atroce…. però hanno l’aria di sapersi divertire.
Mattina, bel tempo, non riesco a farmi aprire la cancellata a protezione del castagno: alla proloco hanno la selezione dei candidati per il servizio civile, oltre cento persone!
Fotografo, quindi, da fuori, va bene lo stesso, già penso a raccogliere le castagne cadute a terra, sono grandi, sane e lucide, ma lo spazzino del paese mi precede…

La giornata procede con la visita, del tutto serendipica, alle case rurali di contrada Cava, subito fuori il paese. Bellissime, ancorché abbandonate. La campagna no, ancora è coltivata a vite e frutteto. Tutto rigogliosissimo.

Siedo su un sedile in pietra e mi sento pervadere del senso della perdita della cultura dei tempi antichi, è un vero peccato che tutto stia andando in rovina, una perdita dolorosa. Irrimediabile?

Mangio un boccone e comincio la discesa verso valle. Decido di passare dalla riserva di Fiumefreddo e colmare così un’altra grave lacuna. Arrivo alle 12:55, leggo il cartello all’ingresso: chiusura alle 13!!! Già , dimenticavo, è ovvio, alla provincia di Catania sanno bene che nei pomeriggi del sabato non c’è nessuno in giro …. Portone comunque socchiuso, entro, chiamo, nessuno in giro! Mi inoltro per un centinaio di metri e torno indietro: non vorrei essere chiuso dentro!

Mi sposto sulla spiaggia alla foce del fiume: acqua gelida e cristallina, bagno inevitabile!

L’arte contro il pessimismo?

Stamattina sfoglio il Venerdì della Repubblica di ieri (17 settembre) e vengo colpito subito dal fatto che dei quattro editoriali (rispettivamente di Bocca, Maltese, Ottone, Ceccarelli) ben tre sembrano essere ispirati ad un acuto e irrimediabile pessimismo. La sensazione è che le cose (l’informazione giornalistica, l’opportunismo dei servilisti . . .), in Italia, vanno male; che c’è – ci sarebbe – un urgente bisogno di cambiamento; ma, allo stesso tempo, che i cambiamenti non possono avvenire, se non, eventualmente, in tempi assai lunghi, nei tempi della storia. Il quarto editoriale è centrato sulla fotografia di Kerouac che riguarda il rotolo manoscritto di “On the road”: una boccata d’aria!

Non so se il fenomeno osservato è causato da un ormai generale pessimismo della ragione che non riesce più a scovare alcuna volontà sulla quale sperare in un minimo di ottimismo. Mi viene da pensare che in tempi come questi si (ri)scopre uno dei fondamentali pregi dell’opera artistica: il saper comunicare, magari anche non intenzionalmente, al di là dei livelli e dei condizionamenti culturali. Forse un piccolo antidoto contro il pessimismo?

Ancora sui “barbari” e sul levare

La replica di Scalfari alla lettera di Baricco dal 2026 (vedi www.columba.it/2010/08/26/allora-non-era-vera-apocalisse/ ) ed alcuni altri interventi, tra i qualiLettera ad Alessandro Baricco, dal 2010″ di Treccenere, mi danno lo spunto per tornare sullo stimolante argomento. Ha ragione, Scalfari, quando afferma che i barbari non ci toglieranno la nostra profondità. Non possono, in effetti, se ci siamo formati in un certo modo, se la nostra formazione ed educazione è andata avanti per successive e ripetute “immersioni” nella profondità, se in questo modo abbiamo acquisito il nostro specifico patrimonio culturale, ebbene tutto ciò non ce lo toglierà proprio nessuno. Ha ragione, Treccenere, è molto intrigante, anche, quando propone la metafora del canyon, una superficialità profonda, potremmo dire, cercando l’ossimoro e cercando di mettere in luce il limite della tesi baricchiana.

Da canto mio vorrei spendere qualche parola a favore. Ma soprattutto qualche parola per cercare di mostrare come non sia intenzione dei barbari (quelli di Baricco) quella di “togliere” qualcosa a qualcuno. Oppure di voler costruire una sorta di conoscenza, di cultura “di serie B”. Probabilmente siamo tutti condizionati dalla impressione che ci ha fatto, da bambini, studiare, per la prima volta, la caduta dell’Impero Romano, la sua devastazione ad opera delle orde gotiche e di altre popolazioni centro-europee. Anche se poi abbiamo studiato i diversi e complessi motivi che determinarono la fine dell’impero, ci è sempre rimasta nella memoria la connotazione dei barbari come “i cattivi” di un film nel quale “l’arrivano i nostri”, per una volta, non ha funzionato.

Scalfari dice a Baricco che

non è e non può essere un barbaro perché è intriso di memoria storica, conosce perfettamente quanto è accaduto, ha studiato i testi, ha ascoltato le musiche, ha addirittura messo in scena l’ Iliade e Achille, usa a meraviglia ed anzi insegna il nostro linguaggio

Tuttavia Baricco forse ne riesce ad intuirne il linguaggio (quello dei barbari). In questo non è solo, anzi c’è una scuola di pensiero canadese, il cosiddetto “connettivismo” al quale, forse non consapevolmente, fa riferimento. Mi riferisco qui alle teorie della conoscenza secondo il pensiero di Stephen Downes e George Siemens. Leggiamo ad esempio da What Connectivism Is:

At its heart, connectivism is the thesis that knowledge is distributed across a network of connections, and therefore that learning consists of the ability to construct and traverse those networks.

It shares with some other theories a core proposition, that knowledge is not acquired, as though it were a thing. Hence people see a relation between connectivism and constructivism or active learning (to name a couple).

Where connectivism differs from those theories, I would argue, is that connectivism denies that knowledge is propositional. That is to say, these other theories are ‘cognitivist’, in the sense that they depict knowledge and learning as being grounded in language and logic.

Connectivism is, by contrast, ‘connectionist’. Knowledge is, on this theory, literally the set of connections formed by actions and experience. It may consist in part of linguistic structures, but it is not essentially based in linguistic structures, and the properties and constraints of linguistic structures are not the properties and constraints of connectivism.

In connectivism, a phrase like ‘constructing meaning’ makes no sense. Connections form naturally, through a process of association, and are not ‘constructed’ through some sort of intentional action. And ‘meaning’ is a property of language and logic, connoting referential and representational properties of physical symbol systems. Such systems are epiphenomena of (some) networks, and not descriptive of or essential to these networks.

Hence, in connectivism, there is no real concept of transferring knowledge, making knowledge, or building knowledge. Rather, the activities we undertake when we conduct practices in order to learn are more like growing or developing ourselves and our society in certain (connected) ways.

[Italiano

In sostanza il connettivismo è la tesi secondo la quale la conoscenza è distribuita in una rete di connessioni e perciò l’apprendimento consiste nella abilità di costruire e di attraversare quelle reti.
Ha in comune con altre teorie una affermazione basilare e cioè che la conoscenza non può essere acquisita come si trattasse di un oggetto. In questo senso si può intravedere un punto di contatto tra il connettivismo e il costruttivismo o l’apprendimento attivo.
Dove il connettivismo si distacca da queste teorie è nella negazione che la conoscenza possa essere proposizionale (in senso filosofico, vedi http://en.wikipedia.org/wiki/Propositional ). In pratica, quelle altre teorie possono essere tutte definite “cognitiviste” nel senso che descrivono la conoscenza e l’apprendimento come basate sulla logica e sul linguaggio.
Per contrasto il connettivismo è “connessionista”. In questa teoria la conoscenza è, letteralmente, l’insieme di connessioni formate dalle azioni e dalle esperienze. Può parzialmente consistere di strutture linguistiche, ma senza esservi basata e le proprietà e i vincoli delle strutture linguistiche non coincidono con le proprietà e i vincoli del connettivismo.
Una frase del tipo “costruire il significato” nel connettivismo non ha senso. Le connessioni si formano naturalmente, attraverso un processo di associazione e non sono costruite da alcun tipo di azione intenzionale. E “significato” è  una proprietà del linguaggio e della logica che connota proprietà referenziali  e rappresentazionali dei sistemi simbolici fisici. Tali sistemi sono epifenomeni delle reti e non ne sono descrittivi nè ne sono essenziali.
Nel connettivismo quindi non c’è spazio per il concetto di trasferimento della conoscenza, produzione della conoscenza o costruzione della conoscenza. Piuttosto, le attività che intraprendiamo al fine di ottenerne un apprendimento somigliano di più al processo di crescita e di  sviluppo di noi stessi e della nostra stessa società.]
La traduzione è mia, mi scuso per eventuali imprecisioni…

Mi sembra quindi che il discorso sul senso, sul fatto cioè che il senso per i nuovi barbari sia “tutto in superficie”, ovvero tutto contenuto e sviluppato in modo reticolare,  possa essere tranquillamente giudicato nè minaccioso nè sminuitivo del concetto stesso di conoscenza e di cultura. Più probabilmente non di minaccia si tratta, ma di una profonda mutazione del pensiero.

Qualche link per chi volesse approfondire:

Il fregio del Partenone

Alle spalle del fregio

L’effetto che mi aveva fatto vedere per la prima volta il fregio del Partenone al British, a Londra, era stato di grande rabbia: non era venuto il tempo di restituirle alla Grecia queste opere? E perchè questa esposizione così fredda e asettica?

Questa seconda volta l’esperienza è stata del tutto differente e mi sono ritrovato a provare una certa gratitudine per Elgin, il lord che spese la sua fortuna per portare le statue a Londra e per allestirne l’esposizione.  E poi mi sono dato qualche minuto per cercare di farne una fotografia che potesse comunicare “un senso”. Non è affatto facile: le dimensioni orizzontali, la presenza di moltissime persone, la mancanza del gruppo centrale rappresentante la nascita di Atena, impediscono qualsiasi tentativo di interpretazione in chiave epica o in chiave drammatica o, comunque in una qualche chiave emotivamente significativa. Il tentativo è stato allora quello di cercare di mettere in relazione il fregio con i visitatori, con il pubblico: mi sono quindi messo alle sue spalle e ho scattato una sequenza che mi permettesse poi di restituire una panoramica del fregio stesso e dell’ambiente espositivo.
Questa foto ne è il risultato: alla panoramica ho corretto un pò di deformazioni prospettiche e ho mascherato in modo tale da far risaltare le statue come se fossero più illuminate dell’ambiente circostante. L’effetto finale non è chissà che, ma forse restituisce abbastanza correttamente alcune sensazioni significative: le persone che affollano la sala sono viste quasi dal punto di vista delle statue stesse, possiamo un pò illuderci di guardare con i loro occhi la folla che doveva popolare l’Acropoli. I visitatori sono tutti impegnati a guardare le statue o i bassorilievi delle metope, restituendo in tal modo il corretto funzionamento dell’ambiente espositivo. E poi c’è il vuoto centrale, quasi un buco nell’immagine, a sottolineare lo sgomento della perdita, a stento scongiurata dal salvataggio dei personaggi periferici della rappresentazione. La nascita di Atena, perfettamente cresciuta e già in armi, estratta dalla testa di Zeus grazie ad un colpo di accetta ben assestato da Efesto, non c’è più: probabilmente ridotta a calce per nuove, tardive, costruzioni, lascia il posto alla prospettiva della sala affollata. Una assenza che si fa tangibile presenza.

A Londra (2)

Proprio vero che i tempi cambiano! Al mio quinto giorno, eppure asciutto! Anche i pedoni sono cambiati, attraversare col rosso sembra essere diventata una diffusa abitudine… Ancora più strabiliante: non ho mangiato male nemmeno una volta: cucina cinese o greca o britannica o indiana, tutta (sin’ora) ottima!
Andando più sulle cose serie. Oggi visita immancabile al “British” e grande, positiva sorpresa: il padiglione dell’illuminismo! Una collezione di collezioni di coloro che poi nel 1753 fondarono il museo, ma soprattutto la spiegazione di come l’illuminismo abbia influenzato lo studio della natura, dell’antropologia e della storia per la prima volta in maniera scientifica. Diventa ad esempio chiarissima la mutazione nel campo dell’archeologia, passata dallo studio dei testi a quello dell’analisi dei reperti e dei siti di provenienza. E ancora allo sviluppo di metodiche di scavo e l’incrocio delle conoscenze con quelle derivanti dallo studio delle rocce. Interessantissima anche la parte della storia naturale, vissuta come tentativo di descrivere e comprendere il mondo attorno a noi. Gli altri temi trattati riguardano lo studio delle arti delle diverse civiltà, delle religioni, delle antiche forme di scrittura.
L’illuminismo visto quindi non dal punto di vista del pensiero, non solo, ma soprattutto come motore del cambiamento delle modalità della conoscenza.
🙂

A Londra (1)

Dopo tanti anni, Londra, praticamente a colmare una lacuna. La volta precedente ero ancora uno studente… la città decisamente “british”, la metropolitana, per me che venivo dai prati scozzesi, decisamente troppo rumorosa.
Le prime sensazioni di questo viaggio sono del tutto differenti: il numero di Rolls sulle strade si è drasticamente ridotto, la città sembra complessivamente più lieve e vivibile. Ma è troppo presto, dopo neppure 24 ore dall’arrivo, per gettare lì qualcos’altro che non sia delle primissime sensazioni. Ma la giornata è cominciata bene, con un giretto ad Hide Park alle sette del mattino, con una bella giornata che invogliava i corridori cittadini di tutte le età, anch’io mi sarei messo a correre… Ma soprattutto scoprendo qualcosa che dalle nostre parti non ho visto mai neppure nei “santuari naturalistici”: nella fontana del “Diana Princess Memorial” , praticamente in mezzo alla folla dei visitatori, una coppia di Folaghe ha fatto il nido su un ciuffo della vegetazione acquatica a non più di un metro dal bordo vasca! E stanno tranquillamente lì ad allevare i 6 pulcini!
Se questa è Londra, che meraviglia!

Manifesto degli insegnanti, qualche considerazione

Questo post nasce da uno scambio di battute su Facebook in merito al “Manifesto degli Insegnanti” che è stato recentissimamente pubblicato ad opera del network “La scuola che funziona“. L’idea che sta alla base del “Manifesto” è quella di creare, per gli insegnanti , quello che per i medici è il “giuramento di Ippocrate”. Lo scopo è certamente condivisibile, mi spiace solo non aver avuto il tempo materiale per potere, anche minimamente, contribuire. Tuttavia qualcosa, nel manifesto, non mi piace, non mi convince, lo avevo appunto accennato ad Andreas Formiconi che ieri ha esposto le ragioni dell’adesione in questo illuminante post. Se interpreto correttamente, l’affermazione fondamentale di Andreas è la seguente: la scuola ha sino ad ora svolto un compito che comporta, forse addirittura prevede, un processo di appiattimento delle caratteristiche personali ed individuali degli alunni in favore della creazione di categorie di lavoratori: il ragioniere, il medico, l’impiegato, l’ingegnere e via dicendo. Le godibilissime citazioni portate a sostegno di questa affermazione sono, da par suo, colte ed appropriate. Il “Manifesto degli insegnanti” potrebbe allora contribuire a mutare questa certo non esaltante situazione in quanto introduce il rispetto per la vita, il rispetto per la verità (non dogmaticamente intesa), il rispetto per l’errore. Concordo pienamente e condivido, pienamente convinto, della necessità che a scuola si coltivino tutte e tre queste forme di rispetto.

Tuttavia i motivi della mia perplessità a sottoscrivere il “Manifesto” permangono. Non me ne vorranno gli amici de “La scuola che funziona” che stimo e per i quali nutro un sentimento di gratitudine, ciò che adesso dirò è animato dalle migliori intenzioni.

Al punto numero 1 del manifesto leggo:  Amo insegnare. Amo apprendere. Per questo motivo sono un insegnante. Bellissimo, certamente, ma mi viene un dubbio: dobbiamo allora intendere che l’insegnamento non può essere una professione? Siamo ad una diversa formulazione della frase fare il docente è una missione che sentiamo da sempre? Certo piacerebbe a tutti poter lavorare facendo ciò che più si ama, ma quanti sono quelli che vi riescono?

Al punto 2 un’altra affermazione forte secondo la quale il docente che non fosse più capace di suscitare la meraviglia innata nell’alunno dovrebbe cedere il posto. Mi sembra un pò troppo categorica; e poi, cosa non trascurabile, di che vivrebbe? Teniamo famiglia . . . qualcuno direbbe. E poi, sinceramente, mi sembra una affermazione poggiata sulla buona volontà e poco realistica: la scansione delle attività scolastiche in giorni e ore prefissate è, già da sola, garanzia di noia assicurata! Per farlo capire ai miei alunni (me lo permetto perchè sono grandicelli, diciamo dai 16 ai 20 anni) dico loro che se dovessero, obbligatoriamente, fare l’amore con la fidanzata più desiderabile dalle 9 alle 10 del lunedì, dalle 12 alle 14 del mercoledì e alle 8 del sabato, così come succede per una qualsiasi materia di insegnamento, bè, sono sicuro che non ne potrebbero più già dopo poche settimane! Figuriamoci per nove mesi di fila! Insomma, voglio dire che la stessa organizzazione di base della scuola contraddice al principio del rispetto della persona. Nel manifesto sembra che il docente possa ergersi eroicamente a superare a piè pari anche questo ordine di difficoltà.

Non mi pare il caso, nè mi sembrerebbe corretto, fare adesso una disamina di tutti i punti. Mi limiterò a notare che ai punti 11, 12 e 13 si legge:  lotterò, resterò fedele, aiuterò ad illuminare . . . sinceramente, mi sembrano affermazioni piuttosto “calcate”. Mi sembra che ne emani la visione di un insegnante con uno smisurato ego e con una concezione di sè ispirata all’epico guerriero.

Per questo non riesco a trovare sufficiente empatia per firmare.

Moltiplicazione degli accessi e banalizzazione

Queste considerazioni prendono spunto dal post La rete tradita di Mario Rotta che, ancora una volta lucidamente e brillantemente, mette in evidenza la distanza abissale tra quelle che erano considerate le possibili evoluzioni della rete e la dura e cruda realtà delle realizzazioni cui quotidianamente assistiamo. Mario, sono con te!  Ciò che dici fa male: a fronte delle possibilità veramente “rivoluzionarie” dello stare in rete assistiamo anche qui al dilagare, guarda caso, di una preoccupante e mortificante mediocrità. Nè, d’altro canto, può essere di consolazione la constatazione della non esclusività del fenomeno: se guardiamo agli altri settori critici e strategici per il prossimo futuro del nostro paese, ad esempio a scuola e a politiche energetiche, rischiamo di farci prendere da un irrimediabile sconforto.

Non bello.

Peggio: temo che si tratti di qualche cosa, di una dinamica, del tutto connaturata con la natura dell’essere umano, una dinamica che agisce una trasformazione in senso banalizzante dell’oggetto di volta in volta di interesse. Un classico esempio è, per me, la dinamica che si instaura quando si vuole proteggere un ambiente naturale Leggi tutto “Moltiplicazione degli accessi e banalizzazione”

Da leggere

Per contrastare gli abbattimenti connessi al mio attuale compito di commissario all’esame di stato vado leggendo varie cose, tutte interessanti, ma una in particolare mi colpisce (e fa tardare l’ora del sonno): I Miserabili, di Victor Hugo. Il mio personale gusto per lo più non indugia sui “classici”, preferisco la letteratura contemporanea, possibilmente asciutta e senza fronzoli. Eppure I Miserabili mi sta piacendo veramente molto, trasuda grandezza, dignità, senso della storia.
Essendo tra le opere i cui diritti sono ormai scaduti, il libro è scaricabile gratuitamente da Liber Liber . Riporto qui di seguito un brano sul quale so già che vorrò tornare più volte:

Leggi tutto “Da leggere”

Modi diversi per un corso on line – A different on line course

English section of the post

In this post I’ll try to summarize in italian language the content of How This Course Works post. So it is not necessary the english translation of it. Better the original one!

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Leggo la pagina How This Course Works del Critical Literacies Online Course Blog in fase di avviamento. Si tratta di un corso di tipo connettivista e le differenze di concezione e di svolgimento sono subito evidenti. Provo a puntualizzarle.

Intanto va evidenziato che l’obiettivo del corso non è quello di ricordare dei contenuti. Si tratta piuttosto di intraprendere delle attività che saranno, di conseguenza, diverse da persona a persona. La sede di svolgimento inoltre non è unica ma l’intero web è potenzialmente coinvolto. Le attività principali sono quattro:

  • Aggregazione

Il corso fornisce una grande quantità di materiali in forma di letture, video, audio e quant’altro immaginabile. La quantità è tale che non è pensabile che si possa leggerli tutti. Ognuno allora è chiamato a scegliere quanto ritiene più interessante e appropriato ai personali interessi.

  • Remix ( non saprei come tradurlo)

Una volta che alcuni contenuti siano stati letti o ascoltati o guardati, il passo successivo è di tenerne in qualche modo traccia. I modi consigliati per questo sono:

  • scrivere un post sul proprio blog (eventualmente aprendone uno nuovo su blogger o su wordpress)
  • creare un nuovo item su delicious per ogni documento fruito
  • prendere parte alla discussione sui forum della piattaforma on line del corso
  • inviare dei messaggi su Twitter
  • Riproposizione

Si tratta forse della fase più difficile e delicata. Deliberatamente è stato scelto questo termine perchè non si tratta di fare delle “creazioni”, quanto piuttosto delle rielaborazioni personali dei materiali precedentemente aggregati e “remixati”. L’accento qui è posto sul fatto che non si tratta di partire da zero, bensì si parte dai materiali che sono stati precedentemente proposti. Gli stessi materiali dovranno costituire i mattoni sui quali costruire pensiero e comprensione.

Questo pensiero, questa comprensione, sono il vero oggetto del corso. Gli strumenti di alfabetizzazione critica che saranno descritti nel corso dovranno costituire i veri e propri strumenti (tools) per creare il proprio personale contenuto. Il compito dei corsisti è, quindi, non quello di memorizzare i contenuti, ma di usarli come strumenti con i quali fare pratica.

  • Condivisione

Altra attività fondamentale per il corso è quello della condivisione di quanto andiamo producendo. Può essere imbarazzante, può capitare di sentirsi esposti e di fare pubblicamente degli errori, ma si tratta di una operazione stimolante che ci spinge a lavorare più duramente e più significativamente. E poi il corso si nutre, letteralmente, della condivisione dei materiali che ogni partecipante produce: ogni contributo incrementa la quantità di materiale disponibile. Le persone apprezzano molto che si condivida con loro del materiale. Ognuno di noi apprezza la possibilità di poter accedere a dei materiali.

Le modalità della condivisione sono le seguenti: taggare ogni contributo con la sigla CritLit2010, specialmente su delicious o su twitter. Attraverso questo tag i diversi contributi saranno automaticamente aggregati a livello dell’intero corso. Stesso discorso vale per i post sui blog, o i materiali su facebook o flickr.

Quando un corso connettivista funziona bene, grazie a questa modalità di condivisione è possibile assistere all’instaurarsi di un grande ciclo di produzione, creazione e condivisione. Una esperienza così bella che non si vorrebbe che terminasse con il corso stesso.