Se qualcuno avesse voglia di vedere cosa ho letto questa estate, e ho fatto letture soddisfacenti, potrebbe andare a curiosare nella mia libreria su Anobii per vedere titoli e stelline assegnate. Recensioni in questo periodo non ne ho fatte, mi accingo qui a scrivere qualche rigo per l’ultima lettura: L’ultima caccia di Joe R. Lansdale. Ed in effetti non si tratta di recensione (anche per questo non la scrivo su Anobii) ma di qualche considerazione che la lettura mi ha sollecitato.
La cosa che mi ha colpito di più è stata la determinazione ad uccidere il cinghiale-mostro e la consuetudine dei personaggi, si tratta pur sempre di ragazzi, all’uso delle armi e alle strategie della caccia. Fossimo a scuola parleremmo di vere e proprie “competenze”. Mi colpisce non tanto in sé, non siamo in presenza qui di una sorta di “Moby Dick” in salsa western, quanto piuttosto al pensiero delle differenze culturali tra la mia generazione e la generazione degli attuali ventenni per i quali, credo, il senso ricavato dal libro sarebbe affatto differente dal mio. Personalmente ho un chiaro ricordo della diffusione – parlo della Sicilia – delle armi nelle campagne degli anni 60: i carrettieri portavano sempre con sé la “scopetta” ad uso difesa personale. Ma un fucile da caccia c’era in tutte le case e andare, di tanto in tanto, a sparare ad un coniglio era del tutto normale. Anche una certa dose di bracconaggio era del tutto normale . . . L’inseguimento e l’eccitazione personale e dei cani, per quanto per “prede” non lontanamente paragonabili al cinghiale del libro, non mi sono quindi estranee, anzi, credo costituiscano una parte importante della mia formazione “naturalistica” soprattutto per quanto riguarda la percezione della vita e della morte e dell’umano arbitrio nel dare la vita o nel dare la morte. Per i giovani attuali non andare a caccia è un imperativo morale, per la mia generazione, a partire da un verto punto, è stata una scelta. Già per questo motivo ho la sensazione che il romanzo, considerato di “formazione”, sugli attuali giovani non avrebbe questo effetto. Ma ci sono anche altre importanti differenze: il voler diventare rapidamente adulti, il formarsi un carattere indipendente e coraggioso, il bisogno di sfidare le autorità dei genitori non appartengono più, oggi, all’antropologia dell’adolescente e del giovane adulto. Con questo non voglio coniugare l’usuale, retorico, discorso “dei vecchi bei tempi”, sono certo che gli attuali giovani siano obbligati ad affrontare sfide altrettanto impegnative, o forse più impegnative se riflettiamo alla complessità dell’economia e del mondo del lavoro, semplicemente mi fermo ad osservare che le attuali sfide riguardano sempre più un mondo artificiale un mondo lontano dal contatto con le ruvidezze e le bellezze della natura.