Scuola, covid, giornalismo, minchioni

Vomito e disgusto. Non ne posso più di sentire menate sul fatto che la scuola, quella “vera”, debba essere la scuola “in presenza”. La scuola ove tradizionalmente il prof spiega e interroga, punisce e premia. Almeno alle superiori le cose stanno ben diversamente. Vorrei tanto che questi soloni che affollano le pagine stampate e le trasmissioni radiotelevisive passassero qualche mattinata in classe con me e le mie classi. Vorrei che vedessero la disperazione (intesa come mancanza di speranza) negli occhi di molti alunni oppure la insopprimibile noia negli occhi di molti altri. Vorrei non dover leggere antipatiche esercitazioni di retorica come quella di Dario Cresto-Dina sul giornale di oggi tra le quali si afferma che chiudere le scuole a marzo sia stata “l’ammissione di una resa”. Mah, sin qui io avevo pensato che si era trattato di una assunzione di responsabilità … E ancora le affermazioni che é a scuola che si forma la socialità, il pensiero, la coscienza, etc etc. Beh, per forza, se si vive a scuola tutta l’infanzia e tutta l’adolescenza per forza deve essere così. Senza considerare quelle “meravigliose” agenzie formative costituite dagli stadi , dai tronisti e dagli influencer sticchiosi e tatuati.

Ma… é venuto a nessuno il dubbio che tutta questa faccenda del Covid possa essere fortemente formativa? Quando mai é successo di partecipare alla elaborazione filosofica, psichica, morale, economica di un evento che coinvolge l’umanità e il pianeta per intero? Non son cose da nulla… Perché mai da tante parti ci si sta sforzando di mostrarla come perdita disastrosa piuttosto che come occasione di crescita? Se usate correttamente le crisi sono sempre state foriere di cambiamento positivo.

Ma forse non interessa, meglio non rischiare di cambiare qualcosa. D’altro canto: non viviamo nel miglior modo possibile?

Vomito e disgusto.

Parlamentare ultràs? Non è divertente.

Mi è molto dispiaciuto sentire stamattina alcune affermazioni di Antonio Polito su “Prima Pagina” di Radio3. Mettendo giustamente l’accento sulla prima volta di un parlamentare proveniente dalle tifoserie e tracciandone brevemente alcune significative note biografiche per lo più improntate ad una certa pierineria, Polito conclude che si tratta di un parlamentare da seguire perchè chissà quante ne combinerà, intendendo con questo riferirsi ad iniziative e interventi irrituali e kitch. Polito utilizza una certa ironia e un certo sarcasmo che, a mio parere, non lo salvano da un giudizio di inopportunità della affermazione. Avrei capito se si trattasse di un cabarettista ma di un parlamentare si parla in modo diverso e da un parlamentare, qualsiasi sia la sua provenienza, ci si deve aspettare un comportamento corretto e sempre improntato allo spirito critico, al servizio della comunità, alla collaborazione.

Quanto detto fa parte di una serie di riflessioni che mi trovo spesso a fare sul ruolo della stampa e dell’informazione tutta e sul peso che certe modalità giornalistiche hanno sulla formazione dell’opinione pubblica e sulla cultura di un intero paese. Le modalità con le quali Polito si è espresso, infatti, rischiano inevitabilmente di legittimare atteggiamenti e comportamenti che saranno certamente di danno allo svolgimento delle attività parlamentari. Al più saranno buone per consentire la realizzazione di qualche servizio “di colore” il cui effetto sarà probabilmente ulteriormente diseducativo.

Certamente non può sfuggire ad un giornalista della levatura di Polito che il sarcasmo e l’ironia richiedono capacità di interpretazione che appartengono a determinate culture e non ad altre: certamente gli ormai numerosi lavoratori stranieri (non necessariamente extracomunitari) non riescono ad apprezzare, se non quei pochissimi che ormai parlano l’italiano come lingua madre,  le sfumature linguistiche adottate a proposito delle attese boutade di uno arrivato in parlamento grazie alla popolarità raggiunta con i comportamenti da curva sud. Ma anche tra quanti si sono formati nel ventennio berlusconiano troveremo molti privi degli strumenti culturali necessari e, purtroppo, pronti ad accogliere le annunciate intemperanze come qualcosa di divertente.

E’ questo che vogliamo?

 

 

L’arte contro il pessimismo?

Stamattina sfoglio il Venerdì della Repubblica di ieri (17 settembre) e vengo colpito subito dal fatto che dei quattro editoriali (rispettivamente di Bocca, Maltese, Ottone, Ceccarelli) ben tre sembrano essere ispirati ad un acuto e irrimediabile pessimismo. La sensazione è che le cose (l’informazione giornalistica, l’opportunismo dei servilisti . . .), in Italia, vanno male; che c’è – ci sarebbe – un urgente bisogno di cambiamento; ma, allo stesso tempo, che i cambiamenti non possono avvenire, se non, eventualmente, in tempi assai lunghi, nei tempi della storia. Il quarto editoriale è centrato sulla fotografia di Kerouac che riguarda il rotolo manoscritto di “On the road”: una boccata d’aria!

Non so se il fenomeno osservato è causato da un ormai generale pessimismo della ragione che non riesce più a scovare alcuna volontà sulla quale sperare in un minimo di ottimismo. Mi viene da pensare che in tempi come questi si (ri)scopre uno dei fondamentali pregi dell’opera artistica: il saper comunicare, magari anche non intenzionalmente, al di là dei livelli e dei condizionamenti culturali. Forse un piccolo antidoto contro il pessimismo?