Da “Formare ai Saperi” riporto testualmente:
Operare didatticamente per problemi impone, allora, di concepire l’attività della classe come l’attività di una “microsocietà scientifica” in cui gli allievi, a partire da ciò che sanno e dai mezzi che hanno a disposizione, cercano di acquisire una conoscenza che è nuova per loro. Il sapere, in quanto didatticamente trasposto, non è autentico, ma lo è (o dovrebbe esserlo) il lavoro intellettuale che essi mettono in campo per acquisirlo.
Trovo questa affermazione molto stimolante ed è una vera soddisfazione, per un docente, poter concepire una modalità così elevata dell’operare scolastico. Fa venire voglia di approfondire il discorso e, subito, di cercare una efficace messa in opera.
Questo pensiero conduce inevitabilmente ad una serie di perplessità. L’esperienza mi insegna che, nella maggioranza dei casi, il fatto di porre un problema ad un alunno non comporta, automaticamente, che l’alunno operi davvero nel senso del “porsi il problema”. Assegnare un compito dal libro di testo non significa che lo studente ne affronti lo svolgimento cominciando dal comprendere cosa il testo (il problema) richieda. Sembra strano, ma è così! Nè va in modo molto differente quando la richiesta è direttamente posta dal docente in classe. Nell’uno e nell’altro caso capita infatti all’alunno di pensare non all’interpretazione del testo, cosa che costituirebbe il primo passo verso la ricerca della soluzione, bensì alla ricerca di un qualcosa che risponda all’interrogativo “cosa vuole sapere il professore?” L’alunno, cioè, ritiene, forse pensando che sia un risparmio di energie mentali ed intellettuali, che sia più conveniente andare mentalmente a “rovistare” tra le soluzioni già viste e già note piuttosto che applicare metodi e conoscenze per “costruire” la soluzione desiderata.
Evidentemente un simile approccio è assai inefficace, sia in termini di acquisizione delle conoscenze, sia in termini strettamente limitati al raggiungimento di una valutazione positiva. Si tratta di una risposta definibile, credo, come “comportamentista”. Quando ne parlo con i miei alunni cerco loro di far notare come sia impossibile ridurre la soluzione di tutti i problemi al “modello ascensore”! Non sempre, anzi, quasi mai, ci si può limitare a scegliere il bottone giusto da pigiare!
Un’altra perplessità deriva dall’osservazione della non condivisione delle finalità tra docente e alunno, il quale per lo più non è granchè interessato alla acquisizione di una conoscenza, almeno non esplicitamente e consapevolmente. E quindi viene a mancare quella condivisione di intenti necessaria alla corretta e funzionale interazione tra chi insegna e chi (almeno sulla carta) apprende. Il discorso evidentemente si intreccia con quello della motivazione, tasto come si sa assai dolente, ma qui, nell’ottica della realizzazione di una “microsocietà scientifica”, ancora più critico. Infatti se è pensabile la condivisione di un interesse generale verso il conseguimento del titolo di studio, risulta assai più problematico concepire una condivisione forte e profonda come quella richiesta dallo sforzo di costruire un nuovo sapere. E se, per un dato alunno, “funziona” in una disciplina, non è detto che funzioni, anche solo per le naturali preferenze personali, in un’altra.
La sfida è in questo: sapere individuare quelle situazioni problematiche che abbiano senso per gli studenti.
Se si chiede di cercare risposte a domande che gli studenti non si sono poste… è chiaro che non si avrà adesione.
Insomma, bisogna individuare le domande giuste. Di grande aiuto può essere il coinvolgimento degli alunni nella identificazione del problema.