Sublime, non avrei miglior termine per definire questa lettura. È questo il secondo libro di Murakami Haruki che termino in questa stagione, il primo è stato “L’uccello che girava le viti del mondo”, finito il quale sono stato diversi giorni prima di poter nuovamente prendere in mano un libro senza riceverne la sensazione di “poco significativo” (la fine di un buon libro è un piccolo lutto). Scritti a distanza di alcuni decenni, i due testi presentano delle analogie e una struttura molto simili. In entrambi i casi il protagonista è un uomo trentacinquenne, assolutamente non-macho, alle prese con una difficile fase della vita, alla ricerca di se stessi e del proprio posto nel mondo, e alle prese con la necessità di dipanare la matassa della propria esistenza. In questo tentativo il protagonista è costretto a coinvolgersi con fenomeni di “altri mondi” (verrebbe da parlare di magia o di paranormale, ma ne verrebbe fuori una immagine assai riduttiva) che lo riguardano direttamente e congiuntamente ad una serie di altri personaggi che popolano la narrazione. In entrambi i casi diventa significativa la amicizia con una ragazzina, amicizia sempre caratterizzata da una assoluta purezza di intenti e di comportamenti, una presenza anticonformisticamente presente nelle vicende del più maturo carattere principale. La forza della narrazione non è mai compromissoria delle delicatezza e delle finezza dei sentimenti e delle sensazioni. La vita e la morte sono costanti elementi forti che fanno da cornice al tutto. L’importante è trovarsi, trovare le proprie connessioni col mondo, a costo di passare giorni dentro un pozzo disseccato o di imbattersi nel fantasma vivente di un vecchio albergo nelle immateriali pieghe del modernissimo nuovo. Giapponese con citazioni di classico rock e di cucina italiana Murakami fa spesso affermare ai suoi personaggi una delle perle di saggezza orientale più classiche: quando è il caso, è necessario attendere coltivando la non-azione.