Da leggere

Per contrastare gli abbattimenti connessi al mio attuale compito di commissario all’esame di stato vado leggendo varie cose, tutte interessanti, ma una in particolare mi colpisce (e fa tardare l’ora del sonno): I Miserabili, di Victor Hugo. Il mio personale gusto per lo più non indugia sui “classici”, preferisco la letteratura contemporanea, possibilmente asciutta e senza fronzoli. Eppure I Miserabili mi sta piacendo veramente molto, trasuda grandezza, dignità, senso della storia.
Essendo tra le opere i cui diritti sono ormai scaduti, il libro è scaricabile gratuitamente da Liber Liber . Riporto qui di seguito un brano sul quale so già che vorrò tornare più volte:

Vicino a Digne, in campagna, v’era un uomo che viveva solitario; quell’uomo, diciamo subito la parola grossa, era un antico membro della Convenzione. Si chiamava G.
Nel ristretto ambiente di Digne si parlava del convenzionale G. con una specie d’orrore. Ve l’immaginate, un convenzionale? Era cosa di tempi in cui ci si dava del tu e si diceva cittadino. Quell’uomo era a un dipresso un mostro; non aveva votato la morte del re, ma quasi; era un quasi regicida, era stato terribile. Come mai, al ritorno dei principi legittimi, quell’uomo non era stato tradotto davanti a una corte prevostale? Non gli avrebbero tagliato la testa, perché ci vuol clemenza; ma almeno l’avrebbero bandito a vita. Un esempio, dopo tutto, eccetera, eccetera! Del resto era un ateo, come tutta quella genìa… Cicaleccio delle oche sull’avvoltoio.
Ma era proprio un avvoltoio, quel G.? Sì, stando a quel che v’era di selvaggio nella sua solitudine. Siccome non aveva votato la morte del re, non era stato compreso nel decreto d’esilio ed aveva potuto restare in Francia. Abitava a tre quarti d’ora di distanza dalla città, lontano da ogni capanna, da qualsiasi strada, in un incognito recesso d’una valletta selvaggia; laggiù aveva, si sussurrava, una specie di campo, una tana, un ricovero. Nessun vicino e nemmeno l’ombra d’un viandante; da quando abitava in quella valletta, il sentiero che vi conduceva era scomparso sotto l’erba. Si parlava di quel luogo come della casa del boia.
Pure, il vescovo di tanto in tanto guardava pensieroso l’orizzonte dalla parte dove un ciuffo d’alberi indicava la valletta del vecchio convenzionale, dicendo fra sé: «Ecco un’anima che è sola.» E, in fondo al suo pensiero, aggiungeva: «Debbo visitarlo.»
Ma, confessiamolo, quell’idea, così naturale di primo acchito, gli appariva, dopo un momento di riflessione, come strana e impossibile, quasi ripugnante. Poiché, in fondo, egli condivideva l’impressione generale ed il convenzionale gli ispirava, senza che se ne rendesse esattamente conto, quel sentimento che è come la frontiera dell’odio e che viene così ben espresso dalla parola ripulsione.
Tuttavia, può la rogna delle pecore far indietreggiare il pastore? No; ma che pecora era quella! Il buon vescovo restava perplesso; talvolta si spingeva verso quella parte, eppoi tornava sui suoi passi.
Un giorno, finalmente, si sparse nella città la voce che una specie di pastorello che serviva il convenzionale G. nel suo covo era venuto a cercare un medico; il vecchio scellerato stava morendo, la paralisi faceva progressi ed egli non avrebbe passato la notte. «Dio sia ringraziato!» aggiungevano alcuni.
Il vescovo prese il bastone, indossò la sopraveste, per via della tonaca un po’ troppo logora, come già abbiamo detto, ed anche per via del vento della sera, che non doveva tardare a spirare, e partì.
Il sole tramontava e sfiorava già quasi l’orizzonte, quando il vescovo giunse al luogo scomunicato. Si accorse con un certo batticuore ch’era presso alla tana; scavalcò un fossatello, passò una siepe, rimosse una sbarra ed entrò in un cortile trasandato; fece coraggiosamente alcuni passi e all’improvviso, in fondo al terreno incolto, dietro un folto macchione, scorse la caverna. Era propriamente una capanna bassissima, misera, piccola e pulita, con un pergolato di viti sulla facciata.
Davanti alla porta, in una di quelle vecchie sedie a ruote che sono la poltrona del contadino, c’era un uomo dai capelli bianchi, che sorrideva al sole. Vicino al vecchio stava ritto un giovanetto, il pastorello, che porgeva al vecchio una scodella di latte.
Mentre il vescovo guardava, il vecchio alzò la voce:
«Grazie,» disse «non m’occorre più nulla.» E il suo sorriso lasciò il sole, per posarsi sul fanciullo.
Il vescovo si fece avanti. Al rumore dei passi, il vecchio seduto volse il capo ed il suo viso espresse tutta la sorpresa che si può mostrare dopo una vita a lungo vissuta.
«Da quando sono qui,» disse «quest’è la prima volta che qualcuno entra in casa mia. Chi siete, signore?»
Il vescovo rispose:
«Mi chiamo Bienvenu Myriel.»
«Bienvenu Myriel? Ho sentito pronunciare questo nome: sareste dunque colui che il popolo chiama monsignor Bienvenu?»
«Sì.»
Il vecchio riprese, con un sorriso a metà abbozzato:
«In tal caso, siete il mio vescovo.»
«Un poco.»
«Entrate, signore.»
Il convenzionale stese la mano al vescovo, ma questi non la prese e si limitò a dire:
«Son contento di vedere che m’hanno ingannato. Voi non mi sembrate affatto malato.»
«Signore,» rispose il vecchio «sto per guarire.»
Fece una pausa e aggiunse:
«Morirò fra tre ore.»
Poi riprese:
«Sono un po’ medico e conosco in che modo viene l’ultima ora. Ieri, avevo soltanto i piedi freddi; oggi, il freddo ha raggiunto le ginocchia, ed ora sento che sale fino alla cintola. Quando sarà al cuore, mi fermerò. È bello il sole, nevvero? Mi sono fatto portar fuori per dare un’ultima occhiata alle cose; ma potete parlarmi, perché ciò non mi stanca. Fate bene a venir a trovare un uomo che sta per morire; è bene che questi momenti abbiano dei testimoni. Ognuno ha le sue manìe, ed io avrei voluto arrivare fino all’alba; ma so che ne ho a malapena per tre ore. Sarà buio. Che importa, dopo tutto? Finire è una cosa semplicissima e non v’è bisogno del mattino, per questo. E sia: morirò all’aria aperta.»
Il vecchio si volse verso il  pastore.
«Va’ a dormire, tu. Hai vegliato la notte scorsa e sei stanco.»
Il fanciullo rientrò nella capanna. Il vecchio lo seguì con lo sguardo e aggiunse, come se parlasse a se stesso:
«Morirò mentr’egli dormirà. I due sonni possono farsi buona compagnia.»
Il vescovo non era commosso quanto si potrebbe credere. Non gli sembrava di sentir Dio in quel modo di morire e, per dir tutto (poiché le piccole contraddizioni dei cuori grandi vogliono esser fatte notare come il resto), egli, che all’occasione rideva così volentieri di Sua Grandezza, era un pochino seccato di non esser chiamato monsignore, ed era tentato di ribattere: cittadino. Lo prese una velleità di familiarità burbera piuttosto consueta nei medici e nei preti, ma che a lui non lo era. Dopo tutto, quell’uomo, quel convenzionale, quel rappresentante del popolo era stato un potente della terra e, forse per la prima volta in vita sua, il vescovo si sentiva in vena di severità.
Intanto il convenzionale l’osservava con una modesta cordialità nella quale si sarebbe forse potuto sceverare l’umiltà che s’addice quando si è così vicini alla propria fine mortale. Da parte sua, il vescovo, sebbene di solito si guardasse bene dalla curiosità che, secondo lui, era contigua all’offesa, non poteva far a meno di osservare il convenzionale con un’attenzione che, non avendo la sua sorgente nella simpatia, gli sarebbe probabilmente stata rimproverata dalla sua coscienza, se fosse stato di fronte ad un altro uomo. Un convenzionale gli faceva un po’ l’effetto d’esser fuori della legge, anche della legge della carità.
G., calmo, col busto quasi diritto e colla voce vibrante, era uno di quei grandi ottuagenari che riempiono di stupore il fisiologo. La rivoluzione ha avuto molti di questi uomini, proporzionati all’epoca; si sentiva in quel vecchio l’uomo a tutta prova, che, vicino alla fine, aveva conservato tutti i gesti della salute. Nella sua occhiata limpida, nel suo accento fermo, nel suo robusto moto delle spalle, c’era di che sconcertare la morte; Asrael, l’angelo maomettano del sepolcro, sarebbe tornato sui suoi passi ed avrebbe creduto d’aver sbagliato porta. Sembrava che G. morisse solo perché v’acconsentiva; v’era della libertà nella sua agonia. Solo le gambe erano immobili e le tenebre lo tenevan per quelle; i piedi erano morti e freddi, ma la testa viveva di tutta la possanza della vita e sembrava in piena luce. In quel solenne momento, G. assomigliava a quel re del racconto orientale, carne in alto e marmo in basso. Una pietra era lì presso; e il vescovo vi si sedette. L’esordio fu ex-abrupto.
«Mi felicito con voi,» disse, con quel tono di voce con cui si fa un rimprovero. «Voi non avete votato la morte del re, almeno.»
Il convenzionale non parve notare l’amaro sottinteso nascosto in quella parola almeno. Egli rispose, mentre il sorriso scompariva dal suo viso: «Non vi felicitate troppo, signore; io ho votato la fine del tiranno.»
Era l’accento austero, di fronte all’accento severo.
«Che volete dire?» ribatté il vescovo.
«Voglio dire che l’uomo ha un tiranno, l’ignoranza, e che io ho votato la fine di questo tiranno. È lui che ha generato la regalità, che è l’autorità presa dal falso, mentre la scienza è l’autorità presa dal vero. L’uomo dev’essere governato solo dalla scienza.»
«E dalla coscienza,» aggiunse il vescovo.
«Fa lo stesso. La coscienza è la qualità di scienza innata che abbiamo in noi.»
Monsignor Bienvenu ascoltava, un po’ stupito, quel linguaggio, nuovissimo per lui. E il convenzionale proseguì:
«Quanto a Luigi XVI, dissi di no. Non credo d’aver il diritto d’uccidere un uomo; ma sento il dovere di sterminare il male, e votai la fine del tiranno, vale a dire la fine della prostituzione per la donna, la fine della schiavitù per l’uomo e la fine delle tenebre per il fanciullo. Questo votai, votando per la repubblica: votai la fratellanza, la concordia, l’aurora! Favorii la caduta dei pregiudizi e degli errori, e il ruinare degli errori e dei pregiudizi produce la luce. Noi, proprio noi, facemmo cadere il vecchio mondo ed il vecchio mondo, vaso di miserie, nel rovesciarsi sul genere umano è divenuto un’urna di gioia.»
«Gioia impura,» disse il vescovo.
«Potreste dire gioia torbida, ed oggi, dopo quel fatale ritorno del passato che si chiama 1814, gioia scomparsa. Ahimè! L’opera fu incompleta, ne convengo; abbiamo demolito l’antico regime nei fatti, ma non abbiamo potuto sopprimerlo del tutto nelle idee. Non basta distruggere gli abusi, bisogna modificare i costumi; ma se il mulino non c’è più, il vento c’è ancora.»
«Avete demolito. Ora, il demolire può essere utile, ma io diffido d’una demolizione complicata dalla collera.»
«Il diritto ha la sua collera, signor vescovo, e la collera del diritto è uno degli elementi del progresso. Ma non importa; checché se ne dica, la rivoluzione francese è il più potente passo del genere umano, dopo l’avvento di Cristo. Incompleta, sia pure; ma sublime. Essa ha trovato il valore di tutte le incognite sociali; ha raddolcito le menti, essa ha colmato, pacificato, illuminato; ha fatto scorrere sulla terra fiumi di civiltà; è stata buona. La rivoluzione francese è la consacrazione dell’umanità.»
Il vescovo non poté trattenersi dal mormorare:
«Davvero? E il 93?»
Il convenzionale si rizzò sulla sedia con la solennità della morte ed esclamò, come lo può un moribondo:
«Oh, ci siamo! Il 93! M’aspettavo questa parola. Una nube s’è andata formando per millecinquecento anni e, in capo a quei millecinquecento anni, è scoppiata. Voi fate il processo al fulmine.»
Il vescovo sentì, anche senza volerselo confessare, che qualcosa era stato colpito, in lui; pure non mutò aspetto e disse:
«Il giudice parla in nome della giustizia e il prete parla in nome della pietà che non è altro che una giustizia più alta. Il fulmine non deve sbagliarsi.»
E aggiunse guardando il convenzionale:
«E Luigi XVII?»
Il convenzionale stese la mano e afferrò il vescovo per il braccio:
«Luigi XVII? Vediamo: su chi piangete? Sul fanciullo innocente, forse? E allora sia, anch’io piango con voi. Forse sul fanciullo regale? Chiedo di riflettere. Per me il fratello di Cartouche, fanciullo innocente, appeso per le ascelle in piazza della Grève finché morte ne seguisse, per il solo delitto d’esser stato il fratello di Cartouche, non è meno compassionevole del nipotino di Luigi XV, fanciullo innocente, martirizzato nella torre del Tempio per il solo delitto d’esser stato il nipotino di Luigi XV.»
«Signore,» disse il vescovo «non mi piacciono codesti accostamenti di nomi.»
«Cartouche e Luigi XVII? E per quale dei due protestate?»
Vi fu un momento di silenzio. Quasi il vescovo si pentiva d’esser venuto, eppure si sentiva vagamente e stranamente scosso.
Il convenzionale riprese:
«Oh, signor prete, voi non amate le crudezze del vero! Cristo le amava, lui; e prendeva una verga e spazzava il tempio. Il suo staffile, pieno di bagliori, era un aspro predicatore di verità. E quando egli esclamava Sinite parvulos, non faceva distinzione fra i bambini e non si sarebbe trovato imbarazzato a raccostare il delfino di Barabba al delfino d’Erode. L’innocenza, signore, fa da corona a se stessa ed è altrettanto augusta fra i cenci che fra i fiordalisi.»
«È vero,» disse il vescovo a bassa voce.
«Insisto,» continuò il convenzionale. «Avete nominato Luigi XVII. Intendiamoci: vogliamo piangere su tutti gli innocenti, su tutti i martiri, su tutti i fanciulli, tanto quelli in basso quanto quelli in alto? Ci sto anch’io. Ma allora, come v’ho detto, bisogna risalire oltre il 93, e le nostre lagrime debbono incominciare prima di Luigi XVII; piangerò con voi sui figli dei re, purché voi piangiate meco sui figli del popolo.»
«Io piango su tutti,» disse il vescovo.
«Allo stesso modo!» esclamò G. «E se la bilancia deve pendere, sia dalla parte del popolo, che soffre da maggior tempo.»
Vi fu ancora un breve silenzio, che il convenzionale interruppe per primo. Egli si sollevò sopra un gomito, si prese la gota fra il pollice e l’indice, come si fa macchinalmente quando s’interroga o si giudica, poi interpellò il vescovo con uno sguardo pieno di tutte le energie dell’agonia. Fu quasi un’esplosione.
«Sì, signore, da molto tempo il popolo soffre. E poi, vedete, non si tratta solo di ciò: perché venite ad interrogarmi ed a parlarmi di Luigi XVII? Io non vi conosco, da quando sono in questo paese, ho vissuto in questo eremo, solo, senza mettere un piede fuori, senza vedere altre persone, all’infuori di questo ragazzo che m’aiuta. Per dire il vero, il vostro nome è giunto confusamente fino a me e, debbo dirlo, non pronunciato male; ma questo non significa nulla. Le persone abili hanno mille modi di darla a bere a quel semplicione ch’è il popolo. A proposito: non ho sentito il rumore della vostra carrozza; senza dubbio, l’avete lasciata dietro il ceduo, laggiù, al bivio della strada. Non vi conosco, ripeto; m’avete detto che siete il vescovo, ma questo non mi dice nulla circa la vostra persona morale. Insomma, vi ripeto la mia domanda: chi siete? Siete un vescovo, vale a dire un principe della chiesa, uno di quegli uomini dorati, stemmati, ben forniti di rendite, dalle grasse prebende (il vescovo di Digne ha quindicimila franchi di fisso e diecimila di incerti cioè un totale di venticinquemila franchi), cucine e servi in livrea, che se la passano bene a tavola, mangiando le folaghe al venerdì, che si pavoneggiano, con un servo davanti e uno dietro, nelle berline di gala, che posseggono palazzi e vanno in carrozza in nome di Gesù Cristo, che andava a piedi nudi! Siete un prelato; rendite, palazzi, cavalli, servitori, buona tavola, anche voi avete, come gli altri, tutte le sensualità della vita; e come gli altri ne godete. Sta bene; ma questo dice troppo e non dice abbastanza; non colla probabile pretesa di recarmi la saggezza. A chi sto parlando? Chi siete?»
Il vescovo abbassò il capo e rispose: «Vermis sum.»
«Un verme in carrozza!» brontolò il convenzionale. Toccava ora al convenzionale d’essere altero ed al vescovo umile.
Il vescovo ribatté con dolcezza:
«E sia, signore; ma vogliatemi spiegare in che modo la mia carrozza, che è qui a due passi, dietro gli alberi e la mia buona tavola e le folaghe che mangio al venerdì e le mie venticinquemila lire di rendita e il mio palazzo e i miei lacché dimostrino che la pietà non è una virtù, che la clemenza non è un dovere e che il 93 non è stato inesorabile.»
Il convenzionale si passò una mano sulla fronte, come per allontanarne una nube.
«Prima di rispondervi,» disse «vi prego di perdonarmi. Ho avuto torto, signore; siete in casa mia, siete mio ospite ed io vi sono in obbligo di cortesia. Voi discutete le mie idee ed io debbo limitarmi a combattere i vostri ragionamenti. Le ricchezze e gli agi vostri mi danno nella discussione un vantaggio su di voi; ma è di buon gusto, da parte mia, non servirmene. Vi prometto che non l’userò più.»
«Vi ringrazio,» disse il vescovo.
G. rispose:
«Torniamo alla spiegazione che mi chiedevate. Dove eravamo? Cosa dicevate? Che il 93 è stato inesorabile?»
«Inesorabile sì,» disse il vescovo. «Che ne pensate di Marat, che batte le mani alla ghigliottina?»
«E che ne pensate voi di Bossuet, che canta il Te Deum per gli sciabolatori di protestanti?»
La risposta era dura, ma andava a segno colla rigidità d’una punta d’acciaio. Il vescovo trasalì, nessuna risposta gli venne alle labbra, ma quel modo di nominare Bossuet lo toccò sul vivo. Anche le menti migliori hanno i loro feticci e si sentono talvolta vagamente colpite dalle mancanze di rispetto della logica.
Il convenzionale incominciava ad ansimare. L’asma dell’agonia che accompagna gli ultimi respiri, gli mozzava la voce; pure aveva negli occhi il riflesso d’una perfetta lucidità. Egli continuò:
«Diciamo ancora qualche parola qua e là; io ci sto. A prescindere dalla rivoluzione, che, presa nel suo insieme, è una immensa affermazione umana, il 93, ahimè! è una risposta. Voi lo trovate inesorabile; ma tutta la monarchia signore? Carrier è un bandito; ma che nome date a Montrevel? Fouquier-Tinville è un pezzente; ma qual è la vostra opinione su Lamoignon-Bâville? Maillard è spaventoso; ma Saulx-Tavannes, di grazia? Il padre Duchêne è feroce; ma quale epiteto mi concedete per il padre Letellier? Jourdan Tagliateste è un mostro, minore però del signor Marchese di Louvois. O signore, signore! Io compiango Maria Antonietta arciduchessa e regina; ma compiango pure quella povera donna ugonotta che, nel 1685, sotto Luigi il Grande, signore, con un bimbo lattante, fu legata ad un palo, nuda fino alla cintola, col bimbo ad una certa distanza; il seno si gonfiava di latte ed il cuore d’angoscia: il piccino, affamato e pallido vedeva quel seno, agonizzava e strillava; ed il boia diceva a quella donna, madre e nutrice: ‘Abiura!’ dandole da scegliere fra la morte del figlio e la morte della coscienza. Che ne dite di codesto supplizio di Tantalo applicato ad una madre? Ricordatevi, signore: la rivoluzione francese ha avuto le sue ragioni. La sua collera sarà assolta dall’avvenire, perché il suo risultato sarà il mondo migliore; dai suoi più terribili colpi, esce una carezza per il genere umano. Ma basta così; finisco, perché ho troppo buon gioco. Eppoi, muoio.»
E cessando di guardare il vescovo, il convenzionale completò il suo pensiero con queste parole tranquille:
«Sì, le brutalità del progresso si chiamano rivoluzioni. Quando sono finite, si riconosce questo: che il genere umano è stato maltrattato, ma ha camminato.»
Il convenzionale non sospettava neppure d’aver conquistato successivamente, una dopo l’altra, le più intime resistenze del vescovo; ma ne rimaneva ancor una e da quella suprema difesa di monsignor Bienvenu, uscì questa frase, in cui riapparve tutta l’asprezza dell’inizio:
«Il progresso deve credere in Dio. Il bene non può avere servitori empî; l’ateo è un cattivo condottiero del genere umano.»
Il vecchio rappresentante del popolo non rispose; ebbe un fremito, guardò il cielo e nel suo sguardo spuntò lenta una lacrima. Quando la palpebra fu piena, la lacrima scorse lungo la gota livida, mentr’egli diceva a bassa voce, balbettando e come se parlasse a se stesso:
«O ideale, tu solo, tu solo esisti!»
Il vescovo ebbe una specie d’inesprimibile commozione. Dopo una pausa, il vegliardo levò un dito verso il cielo e disse:
«L’infinito esiste ed è là. Se l’infinito non avesse un io, l’io sarebbe il suo limite; perciò non sarebbe infinito o, in altre parole, non esisterebbe. Ora, dal momento ch’esso è, ha un io ; quest’io dell’infinito è Dio.»
Il morente aveva pronunciato queste ultime parole a voce alta e col fremito dell’estasi, come se vedesse qualcuno. Quand’ebbe finito di parlare, gli si chiusero gli occhi; lo sforzo l’aveva spossato. Era evidente che in quell’attimo aveva vissuto le poche ore che gli rimanevano e che quanto aveva detto l’aveva avvicinato a colui che è nella morte. L’istante supremo stava per giungere.
Il vescovo lo capì. Il momento urgeva ed egli era venuto come prete; ma, dall’estrema freddezza, era passato alla profonda commozione. Guardò quegli occhi chiusi, prese quella vecchia mano rugosa e gelida e si chinò verso il moribondo:
«Quest’è l’ora di Dio. Non credete che sarebbe triste che ci fossimo incontrati invano?»
Il convenzionale riaperse gli occhi e sul suo viso si dipinse una gravità in cui v’era già l’ombra.
«Signor vescovo,» disse, con una lentezza che, forse, proveniva più dalla dignità dell’animo che dall’affievolirsi delle forze «ho trascorso la vita nella meditazione, nello studio e nella contemplazione. Avevo sessant’anni, quando il paese mi chiamò e m’ordinò d’occuparmi dei suoi affari. Ubbidii; c’erano degli abusi e li combattei, c’erano tirannie e le distrussi, c’erano diritti e principî ed io li proclamai e sostenni. Il territorio era invaso e lo difesi; la Francia era minacciata ed io offersi il mio petto. Non ero ricco e sono povero; ero uno dei padroni dello Stato in certi momenti in cui le cantine del Tesoro erano così ingombre di valute, che bisognava puntellare i muri, perché non cedessero sotto il peso dell’oro e dell’argento, e andavo a pranzare in via dell’Albero Secco a ventidue soldi per pasto. Ho soccorso gli oppressi e consolato i sofferenti. Ho stracciato, è vero, la tovaglia dell’altare; ma per fasciare le ferite della patria. Ho sempre sostenuto la marcia in avanti del genere umano, verso la luce, ed ho talvolta resistito al progresso spietato; all’occorrenza ho protetto voi, i miei avversari; e a Peteghem, in Fiandra, nel luogo in cui i re merovingi avevano il palazzo d’estate, v’è un convento di clarisse, ch’io salvai nel 1793. Ho fatto il mio dovere secondo le mie forze e tutto il bene che ho potuto; e per questo sono stato schiacciato, stanato, inseguito, perseguitato, diffamato, schernito, fischiato, maledetto, proscritto. Da moltissimi anni in qua, malgrado i miei capelli bianchi, capisco che molti credono d’aver il diritto di disprezzarmi e, per gli occhi della povera folla ignorante, ho la faccia d’un dannato; pure accetto, senza odiare nessuno, l’isolamento dell’odio. Ora ho ottantasei anni e sto per morire; che cosa venite a chiedermi?»
«La vostra benedizione,» disse il vescovo, cadendo in ginocchio.

Autore: Carlo Columba

Nato (1956), cresciuto e vissuto a Palermo ma certamente non "palermitano doc", piuttosto mi sento pronto per un trasferimento in svizzera… Insegno elettronica negli istituti tecnici industriali ma provengo da esperienze di progettazione e produzione nel campo della multimedialità sequenziale e interattiva. Amante della natura e del silenzio da sempre coltivo la fotografia come personale e indispensabile autoterapia.