Leggo con interesse l’articolo di Federico Rampini (Repubblica 5 giugno) ma lo condivido solo parzialmente. Indubbiamente vero che la concentrazione e la capacità di selezionare, soprattutto durante il lavoro, le sollecitazioni “distrazione” da quelle “produttive” sia una abilità che tutti siamo chiamati a praticare ogni giorno. Vero anche che nuove forme di distrazione ci sono procurate dalle tecnologie della comunicazione veicolate da un numero crescente di device. Tuttavia l’articolo mi sembra ispirato ad una visione tutta efficientistica delle nostre giornate e trascura del tutto di mettere in evidenza che, se ci distraiamo, è anche perchè o deliberatamente lo vogliamo, o, magari per stanchezza, ne abbiamo bisogno. Mi sarebbe piaciuto molto di più un approccio meno semplicistico, magari un approccio che guardi alla relazioni di rete come ad un possibile antidoto alla “perdita di produttività” causate dalle distrazioni provenienti da internet e smaphone. Sarebbe un discorso molto più interessante e stimolante, un discorso rivolto magari ad un livello maggiore di complessità, meno giornalistico, quindi, ma più costruttivo.
Voglio infine rilevare come ci siano occasioni nelle quali la “distrazione” possa addirittura essere funzionale. Io stesso non lo avrei creduto sino a qualche tempo fa ma ho potuto constatare per esperienza diretta che in occasione di meeting di lavoro ad alto livello di formalizzazione (delegazioni internazionali, report periodici, etc) o comunque occasioni nelle quali ci siano molto “tempi morti” da rispettare, la possibilità di avere tra le mani notebook o smartphone possa essere funzionale al mantenimento di una certa freschezza e di una certa concentrazione. Certamente limita la voglia di finire il più presto possibile e “scappare via”. C’è anche del “buono” quindi!