L’altro giorno in classe ho potuto osservare un comportamento non spiegabile in accordo alla teoria cognitivista. Stavo lavorando coi i miei alunni ad alcuni esercizi riguardanti l’utilizzo del sistema simbolico basato sui numeri complessi per la rappresentazione dei segnali di tipo sinusoidale. Dopo alcune ore di lavoro durante le quali abbiamo affrontato e sviscerato passo passo tutte le diverse difficoltà , i lavori hanno preso un ritmo decisamente differente: le soluzioni ad alcuni problemi arrivavano quasi istantaneamente, certamente ancora prima che fossimo in grado di spiegarne il perché. Come mai? Come può avvenire che la soluzione venga trovata “prima” della capacità di descriverne il processo seguito?
La spiegazione che mi accingo a farne è, ad oggi, la mia “posizione sul connettivismo”.
Sono convinto che nessuna delle teorie dell’apprendimento sia totalmente corretta o totalmente errata: il comportamentismo, ad esempio, mi sembra assolutamente fondamentale nella descrizione di come si impara ad andare in bicicletta o a guidare un’automobile; dovessimo pensare a spostare il piede per premere il freno . . . nel traffico cittadino avremmo già “tamponato”!
Il cognitivismo, d’altra parte, mi sembra indispensabile alla comunicazione di quanto già sappiamo e alla consapevolizzazione del processo stesso di apprendimento. Il modo con il quale spiego a me stesso - soprattutto la prima volta che imparo una data cosa (alcune cose le dimentico e devo reimpararle una seconda e forse una terza volta . . .) – un certo fenomeno, il modo con il quale mi convinco della validità di quanto sto acquisendo, passa certamente dallo “spiegarmelo” in modo linguisticamente compiuto. In tal caso apprendo in una sorta di dialogo con me stesso, dialogo tanto più efficace quanto più riesce ad essere esplicito. Ad esempio, quando mi sono interessato alla “Teoria della testa ben fatta” di Morin, ho sentito addirittura il bisogno di sintetizzare i capitoli del libro in altrettanti post del mio blog: lo sforzo di sintesi e l’operazione delle scrivere mi hanno obbligato, ma anche permesso, una comprensione molto maggiore, molto più compiuta.
Altrettanto certo è che questi due modi del conoscere non esauriscono le possibili modalità a disposizione dell’essere umano: come sostiene Downes, il connettivismo studia questa altre modalità , andando ad indagare soprattutto nei meccanismi “di rete”, quelli della conoscenza distribuita. Riporto, a proposito, un paio di mie idee, spero non troppo infondate.
La prima riguarda le reti neuronali: istintivamente sono convinto che le connessioni neuronali formano una specie di “fotografia” delle nostre conoscenze. Downes li chiama “patterns”. Io credo che si tratti di un livello di strutturazione ancora maggiore: l’insieme delle connessioni neuronali costituiscono un “modello” analogico dell’oggetto conosciuto. Così come un modello matematico viene utilmente usato per descrivere il comportamento di una dato sistema (la dinamica di una popolazione, il funzionamento dell’acceleratore del Cern, etc . . .), il modello analogico neurale, la “fotografia” neuronica, avrebbe a fondamento della sua capacità descrittiva, un intrinseco, analogo funzionamento del sistema stesso oggetto dell’indagine. La struttura cerebrale che ci permette di conoscere la dinamica di una popolazione, costituirebbe quindi una sorta di “calcolatore analogico”, un sistema gemello, un modello che funziona con analoga dinamica. L’idea, in sostanza, riprende quella dei neuroni “specchio” ai quali si attribuisce la capacità della nostra mente di percepire l’attività cerebrale o l’umore di un nostro interlocutore.
In tal modo si potrebbe spiegare l’incredibile capacità del cervello di riconoscere “al volo” determinate situazioni e istantaneamante implementare un dato processo. Un esempio banale: quando facciamo il conto di quanto costa una data quantità di frutta che stiamo comprando al supermercato, abbiamo forse bisogno di richiamare alla memoria la conoscenza relativa alla necessità di dover moltiplicare il prezzo al kilo per il peso della frutta stessa?
Certamente no! Lo facciamo, si direbbe “spontanemente” e “per abitudine”, ma probabilmente queste espressioni celano un procedimento connettivista.
La seconda idea contempla l’ipotesi di una caratteristica delle reti di lavorare in modo “parallelo”: il mio cervello, così come il mio social network, lavorano contemporaneamente ( ma forse non del tutto indipendentemente) dal cervello e dal social network di qualsiasi altra persona vivente. Non è improbabile che in un momento di sinergia tra queste reti, si venga a creare una conoscenza (e, perché no, anche una competenza) del tutto nuova e originale; conoscenza distribuita, “vissuta” nel senso espresso da Andreas Formigoni: conoscenza come modo di essere al posto di conoscenza come oggetto di possesso.
Un tale parallelismo darebbe luogo quasi certamente ad una risposta non deterministica dei sistemi coinvolti, sia nel caso di sottoreti di un unico cervello, sia nel caso di reti di reti a livello di individui e organizzazioni.
Per tornare al mio alunno: mi piace pensare che il processo di apprendimento derivato dall’attività in classe sia stato, almeno inizialmente, di tipo cognitivista; e che l’utilizzo delle conoscenze appena costruite sia avvenuto invece in modo squisitamente connettivista.