Ringrazio Tiziano Bonini

per lo splendido articolo riportato su “Doppiozero” . Ha citato tra l’altro molte delle persone che entrano a pieno titolo nel mio Personal Learning Network e per giunta con riferimento ad un periodo storico molto caro. Ho conosciuto Ivan Illich a Palermo, portato proprio dal citato Franco La Cecla, in una notte monrealese a base di contradanza e tanta, proprio tanta, buona compagnia e convivialità. Io ho fatto le scuole superiori tra il 69 e il 74 ed appartengo quindi a quella generazione per la quale coltivare l’utopia è il solo possibile realismo. Riconosco oggi appartenere a questa tribù il molto più giovane Bonini del quale ho apprezzato moltissimo lo sforzo propositivo e lo sguardo sistemico. Credo però che le potenzialità del singolo individuo siano anch’esse molto grandi, ma certo quando diventano diffuse e di massa. Esistono cioè dei comportamenti che, come consumatori, potremmo adottare subito a costo zero e che sarebbero a dir poco rivoluzionari (ecco l’utopista…). Ad esempio: spegnere (tutti o quasi) la televisione (e ormai evidentemente anche i canali on demand ) ! Qui e ora…tac e di colpo le aziende impegnate nelle campagne pubblicitarie dovrebbero rivedere tutta la loro filosofia! Oppure…smettere di comprare pesce spada: improvvisamente avremmo una pesca molto più ecologica. E ancora: non comprare più acqua in bottiglia: tonnellate di plastica in meno…Insomma ci sono tante “piccole cose” che se fatte collettivamente cambierebbero di colpo il mondo. E senza bisogno di difficili competenze relative al design e alla produzione che, in quanto competenze di nicchia, difficilmente potrebbero essere utilizzate per un processo di cambiamento delle pratiche industriali. Rimango comunque assai contento di essermi imbattuto in questo testo e metto in coda di lettura una moltitudine di interessanti riferimenti.

Grazie!

Le parola terribili che si dicono ai bambini

Leggo con molto piacere il post Le parole terribili che si dicono ai bambini perchè dà voce a certe riflessioni che forse a molti capita di fare ma senza dare loro un esito, una conseguenza. Appartengo infatti ad una generazione alla quale, da bambini, non era infrequente sentirsi dire “ti scanno” o altre cosette del genere che oggi avremmo pudore ad utilizzare anche nei confronti di un animale. Normale. Era normale! Ma non per questo, come evidenziato dall’articolo, meno traumatico per il bambino cui era diretto. Mi è sembrata una riflessione importante sulla quale soffermarsi.

Non basta non essere mafioso

Bah…devo dire la verità, a me tutta questa retorica celebrativa crea un terribile fastidio. Non voglio e non posso dire – non ne sono capace- se sia giusto o sbagliato ricordare Falcone e Borsellino in questo modo spettacolarmente televisivo. Quello che voglio esprimere è una mia personale e insignificante posizione. Il mio solo stato d’animo. Ebbene, in tutti questi anni sono stato capace di partecipare a manifestazioni antimafia pochissime volte: non sopporto, in queste occasioni, l’idea di condividere, di stare accanto ad altre persone della mia città. Chi, come me, vive da 60 anni a Palermo sa benissimo che il confine tra comportamenti virtuosi e comportamenti deplorevoli nella propria vita e nel proprio lavoro è di una esilità così minuscola, di una fragilità così evidente che mi spinge ad un pudore tale da farmi sembrare esibizionismo anche l’esposizione del simbolico lenzuolo al balcone. Si può essere veramente “antimafia” a Palermo? La domanda non deve sembrare strana: chi lavora in questa città non può fare a meno di entrare in contatto più o meno diretto con personaggi discutibili o con flussi di denaro di non certissima provenienza. Questo è vero per un professionista autonomo (dall’ingegnere all’idraulico e al medico…) così come per il funzionario o il dirigente di un ente pubblico. Non basta non essere mafioso o fiancheggiatore dei mafiosi: siamo immersi in un flusso economico del quale non è parte trascurabile il sommerso derivante dalle attività illecite. La nostra società, le nostre frequentazioni sono “drogate” da questo fenomeno. Può un imprenditore trascurarlo? Può farlo un politico? Certamente no. Ma non dobbiamo pensare necessariamente a cose grosse e costose: sappiamo che il panino che compriamo contribuisce a pagare un pizzo? Abbiamo mai fatto ricorso ad una conoscenza per una pratica lenta o per prenotare un servizio? La risposta è “si”, l’abbiamo fatto tutti. E allora il rischio e il sospetto, durante una manifestazione antimafia, di trovarmi accanto ad una intollerabile ipocrisia mi fa desistere dal parteciparvi. Come si esprime allora il tuo essere e il tuo impegno antimafia, mi si potrà domandare. La mia risposta è: col senso etico del mio lavoro e col mio voto. Con la personale condotta di vita. Altre possibilità non ne ho. Questa è la mia personale quotidiana testimonianza.

The indispensable Patti

Roma, Parco della Musica, che ci fa una rockstar nell’auditorium di Renzo Piano? Beh, Patti Smith non è una rockstar. È molto, ma molto, di più. Quattro persone in tutto: alla chitarra uno dei figli (bravo accidenti a lui!), un batterista opportunamente soft (i 2,2 secondi di riverbero di una sala dedicata alle orchestre non è certo l’ideale per delle percussioni) e un quarto che spaziava dal basso elettrico e alla voce e alle tastiere e al pianoforte. E poi lei, dotata di una forza pari solo alla sua grazia. Non c’è nulla di spigoloso nel suo attraversare i tempi, la storia e i generi, nessuna discontinuità, nessuna disomogeneità: tutto ciò che propone “è lei”, senza alcun dubbio. Nessuna sbavatura. Come fa, c’è da domandarsi e a questo punto appare chiara e opportuna la scelta di una scena per un classico quartetto, una scena senza alcun artificio, senza luci colorate ed effetti speciali. Quattro persone bastano a creare un canto e un incanto.

Aggiornamenti alla voce “didattica”

Ho recentemente pubblicato i seguenti nuovi materiali:

Soluzione reti elettriche in corrente continua – un esercizio

Utilizzare gli strumenti di Google per la didattica

 

Disprezzo delle regole e delle persone – Repubblica Palermo

Apro stamattina l’edizione locale di Repubblica, il giornale che leggo abitualmente e al quale sono in qualche modo affezionato, e trovo che una mia foto di alcuni anni addietro è stata usata come corredo ad un articolo inserito nelle pagine culturali.rep piratata

 

La foto è senz’altro mia ed è recuperabile su Flickr all’indirizzo: https://flic.kr/p/3rgPv5

Come quasi tutte le mie foto su Flickr ( in genere faccio eccezione per foto con persone riconoscibili) è rilasciata in licenza Creative Commons del tipo “Attribuzione – Non Commerciale – Condividi allo stesso modo”, una licenza cioè che ne consente il riutilizzo per scopi non commerciali purché venga citata la fonte e il prodotto derivato sia rilasciato con medesima licenza.

Ora, ragioniamo a mente serena e domandiamoci: perché mai un giornale nazionale, uno dei più importanti, con una tiratura invidiabile e una struttura produttiva nella quale convergono molteplici prodotti a stampa e uno dei più grossi siti web dedicati all’informazione, perché un tale colosso si ritrova a rubacchiare una foto certamente non particolare, un soggetto sicuramente ri-fotografabile, una foto, insomma, di modesto valore complessivo? E poi: passi il fatto che l’utilizzo è commerciale, passi il fatto che il giornale non è rilasciato con la medesima licenza (e sono già due violazioni dei miei diritti di autore), perché, Repubblica Palermo , perché non riporti nemmeno in forma piccola e illeggibile il mio nome e l’indirizzo di provenienza della foto? Questa non è solamente la terza violazione dei diritti, questo è disprezzo delle regole operato da un giornale che tante volte si è schierato per la difesa della legalità! Disprezzo della norma, disprezzo delle persone. Perché?

 

Estremadura

estremadura

Leggo di recente di una passione di Sciascia per la Spagna, un coinvolgimento che lo spingeva ad osservare e studiare queste due terre distinte come collegate quasi a costituirne una sola. La cosa mi ha molto colpito perché vengo da un piccolo giro da quelle parti nel quale mi è capitato di sperimentare sensazioni di appartenenza assai vivide. La terra di Estremadura è una sconfinata distesa di sugheri e lecci, vista dall’alto si presenta come un pattern regolare di macchie verdi che spiccano sul giallo del secco. Ospita diverse città storiche patrimonio dell’Unesco e alcuni santuari naturalistici con specie di uccelli altrove scomparse. Eppure non si può dire che la Spagna sia stato un paese attento alla natura, le trasformazioni ambientali sono state pesanti e a tratti catastrofiche (penso a certi tratti di costa mediterranea). Ma in quel territorio la antropizzazione è stata, diremmo oggi, “sostenibile”. La foresta primigenia non esiste più, ma gli alberi non sono affatto scomparsi: diradati, questo sì, potati anche, come nel caso dei lecci, e considerata specie produttiva anche il sughero. Il diradamento è funzionale alla silvicoltura e insieme consente la coltivazione di cereali e l’uso a pascolo. La redditività deve tutt’oggi essere attraente se è vero che per decine di chilometri ho cercato, per motivi squisitamente fotografici, un qualsiasi varco nelle recinzioni che ininterrottamente delimitano le diverse proprietà. Niente da fare: tutto perfettamente recintato e manutenuto.

Antidoto alla cecità

Rather than merely document reality, Matthew seeks to harness abstraction and beauty from it – to use his imagery, in short, “as an exercise in seeing, or an antidote to blindness.”

Piuttosto che documentare pedissequamente la realtà, Matthew cerca di estrarne astrazione e bellezza – usando la sua visione, sinteticamente, “come un esercizio dello sguardo, o un antidoto alla cecità”.

 

Concordo. 🙂

 

Non di soli pupi….

copertina orlando allo specchioCosa distingue “un libro” da una novità editoriale? L’esuberante ansia affabulatoria di Cuticchio ha impedito venerdì scorso che il tema potesse essere messo a soggetto della serata, per altro splendidamente riuscita. Si, perché il libro di Giulia Lo Porto è cosa del tutto differente dai libri che sin qui si sono occupati di “Beni Culturali”. “Orlando allo specchio” non è documentazione. Non è interpretazione e rivisitazione. “Orlando allo specchio” spezza ogni legame col passato, col conformismo, con l’accademia, col folclore, con qualsiasi cosa sin qui scritta a proposito. L’autrice riesce in una operazione veramente magnifica perché ci fa vivere il senso più alto di un bene culturale. Leggendo il libro si tocca con mano, si vive in prima persona l’esperienza più nobile che possiamo ricavare dall’accostarci a tali beni: che la vita e la cultura sono un tutt’uno. Che ciò che siamo e proviamo sta tutto in relazione con l’ambiente culturale che siamo in grado di generare e che altri hanno generato anche prima di noi. Che c’è un legame tra il nostro essere, il nostro sentire, con la storia. Vivere, questa la lezione del libro, non esiste se non all’interno di un tale sistema. Personalmente ho la sensazione di trovarmi davanti alla nascita di un nuovo genere letterario e già mi dichiaro in attesa di nuovi volumi.

 

Maggot Brain

 

Ci sono delle creazioni che acquistano in noi un valore particolare: l’altro giorno ho per caso riascoltato “Maggot Brain”, bellissimo, ricavandone delle sensazioni più estese del solito. Gli amanti del rock conoscono bene tutte le sfumature di sentimento ed emozioni che il genere provoca sugli ascoltatori: qui il brano è dominato quasi interamente dallo spettacolare assolo della chitarra elettrica di Eddie Hazel che ci inchioda con una sensazione dolce e insieme straziante. Si, questo suono, quella chitarra, ci colpiscono lasciandoci senza difesa alcuna, rapiti. La mia sensazione è stata quella di trovarmi ad avvertire in un solo colpo l’essenza dell’estetica giovanile degli anni 70. Pace e amore, comunione con la natura, niente barriere e nessuna indifferenza, l’utopia come unico sogno perseguibile. Ascoltando il brano tutto è tornato prepotentemente a galla, tutto il bello creato e concepito da quella cultura. Ed insieme ad esso un amaro, amarissimo senso di lutto per il massacro di quelle istanze compiuto senza pietà nei decenni successivi. L’abbiamo pagata cara, con la fine del sogno hanno avuto il sopravvento l’eroina, l’Aids e il suicidio. Il numero di morti è stato di gran lunga superiore a quello del Vietnam. Lo strazio è intatto, ce lo ricorda il suono prolungato della chitarra, quasi il lamento di un cetaceo sperduto che chiama il branco ormai arrivato all’altro capo del mondo.

Buon ascolto: Maggot Brain